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Ero molto addolorato per la morte del cane del mio amico e mi sono disperato, in cella mi sono dato un pugno da solo. Il capoposto mi ha portato da solo in un ufficio senza telecamere (il suo), e lì mi ha tirato uno schiaffone fortissimo in faccia che mi ha fatto male la faccia per due giorni. “Questo è uno schiaffo educativo”, mi ha detto». All’Ipm Beccaria di Milano «o mar fore nun ce sta proprio». Se lo schiaffo educativo non bastava, allora arrivava «la sistemata», ovvero il corso completo di sopraffazione. Che seguiva uno schema: «C’era un fattore scatenante, ossia un comportamento arrogante da parte di un ragazzo, a cui seguiva una reazione di inaudita violenza e ad agire in quei casi era un numero notevole di aggressori, spesso anche agenti non in servizio che arrivavano in ausilio degli altri», ha detto la pm titolare dell’inchiesta Cecilia Vassena, insieme alla collega Rosaria Stagnaro e alla procuratrice Aggiunta Letizia Mannella. L’unica educazione riconosciuta al Beccaria era quella alla violenza e all’ingiustizia. «Il mio compagno di cella mi aveva sporcato la felpa di Versace. Io gli ho tirato un pugno. Un mio amico mi ha tenuto per non farmi litigare. Il capoposto ci ha visto con le telecamere è arrivato e ha picchiato lui». È ciò che risulta dalle carte dell’indagine della squadra Mobile di Milano e del Nucleo investigativo della penitenziaria, che hanno arrestato 13 agenti della stessa penitenziaria per maltrattamenti a minori, lesioni, concorso nel reato di tortura, aggravato dall’abuso di potere del pubblico ufficiale, nonché dalla circostanza di aver commesso il fatto in danno di minori; falso ideologico ed infine una tentata violenza sessuale. 21 gli indagati (su circa 50 agenti dell’istituto), sospesi dal servizio, una dozzina le giovani vittime. In questa scuola le guardie picchiavano con metodo, senza lasciare tracce. Non sempre per la verità: «Aveva una bella impronta di scarpa qua, di anfibio proprio. L’anfibio stampato qua così (sul collo)», dice un giovane detenuto sentito in audizione.
Le vittime imparavano a pizzicarsi a sangue nelle parti colpite per far uscir fuori i lividi; si vestivano a cipolla quando sapevano che le avrebbero prese: oppure si spogliavano cospargendo se stessi e il pavimento di acquea saponata così da far scivolare le guardie e render loro difficile la presa. 9 novembre, 18, 19, 22; le violenze erano quasi quotidiane e chiedersi il motivo non aveva senso: «Essere picchiati lì dentro è normale», dice un giovane detenuto. Poteva essere qualcuno che dava di matto e minacciava di ingoiare una pila perché non gli avevano dato i tranquillanti. Ma poteva essere pure che quel giorno la guardia era nervosa: «Sicuramente oggi qualche schiaffo lo poso, perché mi sono fatto il fine settimana nervoso». Un ragazzo che ha bruciato un materasso in cella viene picchiato brutalmente e si fa dieci giorni di cella senza effetti personali, materasso cuscino e lenzuola. «Io non mi lamento perché se mi lamen… se mi fossi lamentato avrei preso ancora schiaffi e pugni». A uno che protesta dentro un blindato infatti gli chiedono di avvicinarsi al finestrino e gli spruzzano al volto lo spray al peperoncino; viene trascinato in isolamento per essere «sistemato», lui afferra un coccio di piastrella, e prova a difendersi; le guardie si avventano su di lui: «Bastardo, arabo, zingaro. Noi siamo napoletani, voi siete arabi di merda, tu sei venuto ieri!». Un altro viene atterrato, spogliato e colpito con un calcio al cuore, un altro ancora viene frustato con la cintura sui genitali. Nessuno viene portato in infermeria. Una guardia era soprannominata Mma (arti marziali miste) perché «faceva svenire uno dandogli uno schiaffo». «Inizia a tirare pugni... bam bam e bam. Io sentivo che si stava gonfiando tutto. Lui era sopra di me. Pesa più di 100 chili e gigante, tutto palestrato».
Quel pestaggio continua fino all’intervento della direttrice, che intima agli assistenti di togliere le manette e dispone l’invio in infermeria. Direttrice che viene accusata di «non coprire» i suoi uomini (a differenza del precedente comandante, indagato) quando acquisisce le immagini delle telecamere e partono i primi provvedimenti disciplinari : «Mo' stanno le telecamere che parlano eh ... e come ca... ti giustifichi mo’?». C’è poi un caso isolato di tentata violenza sessuale (che non va a termine per la reazione del giovane, che poi subisce anche un pestaggio). I casi di violenze, una dozzina le giovani vittime, sono stati segnalati dalle psicologhe del carcere e quindi, dal garante per i detenuti, Francesco Maisto, che ha ricevuto una mail del consigliere comunale di Milano, David Gentili. Gli indagati avrebbero inoltre minacciato i giovani detenuti che volevano denunciare: «Ti conviene ritirare la denuncia se no sono guai per te». Falsificavano le relazioni di servizio facendo passare pestaggi per «interventi di contenimento», in cui il detenuto distruggeva tutto e si scagliava come un pazzo contro gli agenti, i quali tenevano sempre «una condotta encomiabile». «Una vicenda dolorosa e una brutta pagina per le istituzioni», ha commentato il procuratore di Milano Marcello Viola. «L’impegno del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una casa di vetro, cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci chiaro, perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi abbiamo tutto l’interesse a far apprezzare il prezioso e fondamentale lavoro svolto quotidianamente dalla Polizia Penitenziaria», ha detto Donato Capece.