L’Aquila è il paradigma del malessere italiano? si chiedeva qualche giorno fa
Le Monde, nel commentare le dimissioni di Massimo Cialente e gli arresti dell’inchiesta "Do ut Des". Per il quotidiano transalpino, il sindaco è "l’uomo onesto" sconfitto da "squali e incapaci" e la città terremotata la "vittima di una maledizione". La storia sembra confermare questo teorema: un terremoto con centinaia di vittime, la scienza condannata in un’aula di tribunale, un’emergenza gestita con mezzi faraonici e una ricostruzione lentissima, dieci miliardi per non vedere la fine del tunnel, salvo scoprire che in Comune giravano mazzette su tutto, dai ponteggi ai Map... In realtà, L’Aquila non è solo questo. Passeggiando oggi nella zona rossa si capisce che le dimissioni di Cialente, lanciate come un guanto di sfida al governo che vuole ridimensionarne il ruolo, arrivano fuori tempo massimo. Non per l’election day abruzzese, fissato per il 25 maggio, ma perchè il sindaco ha condiviso tutte le scelte di Berlusconi e Chiodi (eccetto il piano di ricostruzione), di Monti e Barca, per dare forfait proprio mentre qualcosa, finalmente, si muove. Il cuore dell’Aquila è fermo al 6 aprile del 2009 ma nelle periferie 19.000 appartamenti sono stati riparati e due terzi degli sfollati sono rientrati a casa. Corso Federico II, l’asse centrale della città, è un via vai di camion e operai. Se ti inoltri di buon mattino tra i palazzi incerottati di tubi innocenti ascolti un concerto di martelli pneumatici, trapani e generatori che non lascia dubbi sulla voglia di ripartire. Non siamo alla rinascita, giacché di duemila negozi hanno riaperto in 26 e lo storico bar dei fratelli Nurzia in piazza Duomo si accontenta di un centinaio di scontrini al giorno. Tuttavia, nei centri storici del cratere sono già partiti 3.000 cantieri; metà nel capoluogo, dove, frazioni comprese, ci sono ancora 3.500 immobili da riparare. Senza contare i beni monumentali: il terremoto ha danneggiato un migliaio di chiese e 700 palazzi antichi. Per loro, ci sono finanziamenti ad hoc e un programma di lavoro lungo nove anni. L’Ufficio speciale per la ricostruzione del Comune dell’Aquila, che dipende dal governo e controlla il rubinetto dei soldi, sostiene che il terremoto finora è costato allo Stato 9,6 miliardi (5,4 dei quali utilizzati per la ricostruzione privata e pubblica e l’assistenza alla popolazione, 4,2 per la prima fase di emergenza), mentre 12 risultano stanziati. Mancano 5,6 miliardi (4 per l’edilizia privata) nel capoluogo e 3,2 nel cratere. Ad oggi sono stati finanziati interventi per 900 milioni: un’accelerazione impressa da pochi mesi, che non permette ancora di superare il ritardo accumulato dalla filiera Fintecna-Reluiss-Cineas (da cui l’Usra ha ereditato 3000 delle 4000 pratiche ancora in attesa di un via libera) ma che segnala la volontà del governo di cambiare passo all’Aquila. Passo e referenti, come dimostra la polemica sulla ricostruzione delle chiese, sollevata sempre dal sindaco, preoccupato di perdere peso e potere. Cialente non è indagato ma si rende conto che l’inchiesta Do ut Des lo indebolisce - ieri gli interrogatori degli arrestati, tre su quattro non hanno risposto al Gip - e sottolineando di non aver nulla a che fare con il "sistema sull’Aquila", basato su "interessi enormi e nessuna regola", ha accusato il governo di averlo "licenziato" proprio per essersi opposto "con fermezza" a tale sistema. In realtà, secondo il ministro della Coesione territoriale Carlo Trigilia (renziano) il problema è l’incapacità del Comune di far camminare la ricostruzione: giudizi bollati come "sciacallaggio" dalla senatrice aquilana Stefania Pezzopane, ma che evidenziano la caratura più politica che morale dello scontro in atto tra il Comune e Palazzo Chigi. Oggi pomeriggio, il Pd aquilano, con una manifestazione di piazza all’Aquila, cercherà di convincere Cialente a tornare sui propri passi. Al sindaco serve una dimostrazione di forza: l’inchiesta ha dimostrato che, diversamente da quanto supponevano gli intercettati, "stare con la sinistra" non garantisce l’impunità e il tintinnar di manette (una decina le inchieste avviate, a partire da beni culturali e Prefettura) rischia di aprire il vaso di Pandora di cinque anni di gestione "emergenziale". Da tempo si parla di puntellamenti strapagati (fatturando migliaia di giunti mai applicati), di 150 cantieri assegnati col gesto di una mano, altri aperti e chiusi in una notte (onde incassare il primo acconto e poi sparire), di una banca dati che nessuno vuole perchè renderebbe più difficile manovrare i soldi (ci sono voluti anni per far adottare le schede parametriche), di maxi-commesse sugli infissi... Un caso per tutti: l’immobiliarista Sergio Adriani voleva partecipare agli appalti della messa in sicurezza ma, racconta, «in Comune mi dissero che il bando era inaccessibile, chiuso nel computer di un funzionario oggi inquisito. Scoprii più tardi che alcune ditte erano riuscite a partecipare ugualmente».