giovedì 16 giugno 2011
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«La libertà è partecipazione...» cantava Giorgio Gaber ed era, non a caso, il 1972. Reagan era un governatore tra i tanti, la Thatcher solo un leader di partito, mentre da noi nelle aule delle università e nei board delle partecipazioni statali si ragionava di economia sociale e di come realizzare l’articolo 43 della Costituzione, che prevede di affidare il controllo dei «servizi pubblici essenziali» a «comunità di lavoratori o di utenti». È quel che vogliono fare i comitati del sì dopo la vittoria del doppio referendum sull’acqua, quando discettano di «ripubblicizzare» i servizi idrici integrati, che la legge Galli aveva indirizzato verso la privatizzazione. «Nessun assemblearismo, nessun ritorno al collettivismo degli anni Settanta - premette Ugo Mattei, l’ordinario di diritto civile dell’Università di Torino che ha scritto i quesiti - ma dopo la sbornia di liberismo degli ultimi trent’anni vogliamo restituire agli utenti il controllo di un bene comune e per farlo occorre cambiare mentalità e politiche». Ritorno al futuro: dalla scuola di Chicago a Costantino Mortati, ma in senso ecologista. I referendari vogliono sostituire l’ideologia liberista delle privatizzazioni con quella dell’economia sociale, che apparenta - dicono - la dottrina sociale cattolica al socialismo riformista della Seconda Internazionale. Il mix ha un precedente nell’Assemblea costituente; uno dei frutti del connubio fu proprio l’articolo 43 che realizzava la partecipazione di «utenti e lavoratori» avversata nel secolo precedente dai liberali e dai fascisti, un "patto" che si è riverberato sul codice civile anche in età repubblicana. La riedizione dell’accordo «cattocomunista» spiega l’enfasi posta dai comitati del sì, tendenzialmente guidati dalla sinistra ecologista, con i cattolici, mentre i referendari coltivano una certa freddezza verso Bersani, cui, più che la tardiva conversione alla battaglia sull’acqua, non perdonano le lenzuolate, come non dimenticano che il segretario del Pd - con Enrico Letta e a Burlando - è stato l’artefice delle privatizzazioni dell’energia e dei trasporti. Nel concreto, i referendari contano di stoppare ogni manovra di privatizzazione dei servizi pubblici locali, sperimentando in alcuni Comuni-pilota forme di gestione ex articolo 43. Nichi Vendola ha proclamato a gran voce la ripubblicizzazione in Puglia e a Napoli, l’assessore Alberto Lucarelli, un giurista cui de Magistris ha affidato la delega ai «beni comuni» (si annunciano altre battaglie...) potrebbe trasformare la Arin spa, di proprietà del Comune, in una «azienda speciale partecipata». Non è ancora chiaro cosa sia, ma, abrogata la norma che imponeva le gare per affidare i servizi, si apre una prateria dinnanzi ai creativi del diritto. «Un ciclo si è chiuso e gli strumenti per politiche della partecipazione, che incentivino i cittadini a mettersi al servizio del bene comune, esistono già - obietta Mattei -. Un contratto redatto secondo il diritto vigente può privilegiare il profitto ma anche contenere clausole normative a tutela del bene comune e individuare ciò che è indisponibile, come l’accesso all’acqua per i meno abbienti». A presidiare il nuovo sistema sorgeranno «organismi di controllo in cui saranno rappresentati utenti e lavoratori, come vuole la Costituzione» aggiunge il giurista torinese, che cita precedenti olandesi («ante Stato moderno») e americani («le rappresentanze dei genitori supervisionano le scuole pubbliche e hanno un potere non formale»). In questa prospettiva, le spa quotate in borsa non dovrebbero subire grandi scossoni anche se Acea ed Hera, i giganti del settore, paiono in fibrillazione. Dopo l’abolizione della norma sulla «adeguata remunerazione» sono stati annunciati i ricorsi dei consumatori per ottenere l’immediata revisione delle bollette ma non è escluso che anche qualche convenzione tra i gestori e i Comuni vada rivista. A vivere ore di ansia sono soprattutto i sindaci. Poiché controllano la maggioranza delle società di gestione, toccherà a loro riparare gli acquedotti: si parla di un fabbisogno dai 40 ai 64 miliardi che, in virtù del referendum, non si possono più caricare sulle tariffe. «Nei bilanci comunali non ci sono margini - conferma Antonio Misiani, responsabile del federalismo fiscale per Legautonomie -, visto che la riforma federalista comporterà una riduzione delle risorse di 1,5 miliardi quest’anno e di 2,5 il prossimo». Se non si potrà pescare dalle nuove imposte sugli immobili o dalla compartecipazione all’Iva non resterà che vendere i gioielli di famiglia. Potrebbe aiutare il federalismo demaniale, che trasferirà ai Comuni alcuni beni dello Stato. Ma l’elenco è bloccato da mesi.
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