Un'immagine simbolo delle carceri italiane (Archivio Ansa)
C’è una via italiana nella prevenzione del jihadismo. Parte dalle carceri, humus ideale per l’arruolamento di nuovi 'soldati', e segue quasi con ostinazione l’unica finalità possibile della pena: rieducare il detenuto, chiunque sia, rispettandone i diritti. Solo così è possibile mostrare che un’altra vita è possibile. Ed evitare che, tornato in libertà, un piccolo delinquente sfoghi la rabbia accumulata aggredendo il primo che passa nel nome di Allah.
Premessa. Lo scenario estremista è profondamente mutato negli ultimi anni. Con cinica sintesi lo rivela una battuta circolata in un recente convegno sul radicalismo islamico, organizzato dal Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria per il Triveneto: «Non ci sono più i terroristi di una volta». Dal 'duro' di al Qaeda, fedele alla causa al punto da rifiutare ogni contatto con il personale in divisa, si è passati al jihadista artigianale. Uno che si lascia sedurre dai sermoni incendiari di improbabili imam e dagli stregoni digitali del Daesh, trasformandosi in integralista da tastiera pericolosamente in bilico tra parole e azione. Più improvvisato, certo, ma anche più imprevedibile. E che una volta in carcere può definitivamente perdere la bussola.
Il vertice del Triveneto (vi hanno partecipato investigatori, magistrati ed esperti internazionali) ha letto il termometro della febbre islamista nei penitenziari italiani. E ha colto sintomi da non sottovalutare. Secondo l’ultimo 'censimento' i radicalizzati in cella sono circa 600, in aumento costante. Due anni fa erano meno di 400. Si tratta in buona parte soggetti appesantiti da un passato difficile, consumato di solito tra spaccio, risse, rapine, alcol e droga. Quando si ritrovano dietro le sbarre, cercano nell’islam estremo una scorciatoia per 'mondare' una vita segnata dal peccato e dal fallimento.
Un identikit che ricalca in modo inquietante i profili di Cherif Chekatt, l’attentatore di Strasburgo, e di Anis Amri, il tunisino che lanciò un tir contro il mercatino di Berlino. Ma anche di Mohammed Bohuel, l’uomo che compì l’orrenda strage di Nizza. Tutti ex detenuti trasformatisi in 'lupi solitari'. Il fatto poi che gli attentati siano in diminuzione e che in Italia non sia finora accaduto nulla non deve illudere perché, specificano le fonti, «il tempo che viviamo potrebbe essere considerato quale stato di incubazione e maturazione di peggiori sviluppi».
Ecco perché l’attenzione resta altissima. In carcere i piccoli criminali possono incontrare cattivi maestri che offrono un’ala protettiva e una possibilità di riscatto attraverso la 'guerra santa'. La diagnosi dell’intelligence italiana parla di contagio da «virus jihadista», che trova «fertile terreno di coltura» proprio nei penitenziari, «diffuso da estremisti in stato di detenzione».
Di fronte ai primi segnali allarmanti – la barba che comincia ad allungarsi, le ore dedicate alla preghiera e il callo sulla fronte (segno evidente di ripetuta prostrazione a terra), la tendenza ad assumere un ruolo guida tra i compagni di cella – il monitoraggio è immediato. La polizia penitenziaria, insieme agli altri operatori, osserva e annota. E scatta il piano di prevenzione: i soggetti considerati 'caldi' vengono inseriti in programmi trattamentali che mettono sotto la lente la personalità, sfruttando anche i momenti formativi, culturali o sportivi. Un corso di falegnameria o una partita di pallone possono raffreddare il fanatismo e mostrare alternative esistenziali. È l’approccio morbido, magari bollato come 'buonista', che però finora ha contribuito a tenere sotto controllo la grande minaccia. Un metodo che fa sgranare gli occhi al resto d’Europa, dove sono abituati a buttare la chiave dopo l’arresto. Ma trattare i radicalizzati come qualsiasi altro detenuto sta pagando, anche sotto il profilo investigativo: se il 'pesce' resta nel mare, puoi vedere dove nuota, a chi si avvicina. E capire se è solo una sardina smarrita, oppure se rischia di diventare uno squalo. Il 'modello italiano' trova consensi crescenti anche all’estero: attraverso un programma europeo si stanno condividendo prassi che vedono all’avanguardia proprio il Dipartimento del Triveneto, che nei suoi istituti conta il 60% di detenuti stranieri, in buona parte provenienti dal mondo islamico.
A Padova un laboratorio interdisciplinare sperimenterà metodi di mediazione penale per promuovere una revisione critica dei comportamenti devianti e perfezionerà le abilità investigative nel contesto carcerario. Accanto a questo percorso, come impone la Costituzione, si garantisce una effettiva libertà di culto. Spazi di preghiera, ma anche guide spirituali legittime e riconosciute, grazie a un accordo con l’Ucoii (Unione comunità islamiche in Italia). Basta con gli imam fai da te, che raccontano il Corano a modo loro. A proposito di protocolli, l’idea è replicare quello che sta dando buoni frutti con i figli dei boss della ’ndrangheta: si toglie il minore da un ambiente familiare violento e gli si offre un futuro. Un’opzione da mettere in campo quando (e se) torneranno in patria figli e mogli dei foreign fighters. L’intelligence si è accorta che bambini e donne sono ormai al centro della propaganda del Daesh (o di ciò che resta), alla disperata ricerca di nuove leve. La battaglia, oggi più che mai, si combatte con le armi della cultura e dell’educazione.