Foto dell'archivio Ansa
Si stima che in Spagna ci siano almeno tre case chiuse per ogni ospedale pubblico. È il primo Paese in Europa per consumo di prostituzione, il terzo al mondo dopo Thailandia e Portorico, secondo dati delle Nazioni Unite, con quasi 4 spagnoli su 10 – il 39% – che ammette di aver pagato per mantenere rapporti sessuali.
«Tendiamo a immaginare persone mature, in giacca e cravatta e una posizione. Invece il profilo va cambiando e coinvolge sempre più giovani fra i 19 e 20 anni, per la diffusione dei club», spiegano all’Associazione per la prevenzione, il reinserimento e l’assistenza delle prostitute, la principale organizzazione impegnata sul campo nella società civile spagnola. «Preoccupa che la situazione si normalizzi» osserva una delle responsabili, Rocio Nieto, che attribuisce la maglia nera proprio ai cosiddetti puti club, come qui sono chiamate le case chiuse, che il ministro degli Interni, Matteo Salvini, propone di riaprire in Italia.
«Sono fuori da ogni controllo legale, con adolescenti e donne in situazione di semi-schiavitù, mentre le mafie prosperano» è la denuncia alla conferenza sulla prostituzione organizzata dalla Coalizione contro la tratta delle donne, che ha riunito di recente a Madrid 40 specialisti di 22 Stati. Va ricordato che in Spagna come in Italia sono puniti penalmente sia lo sfruttamento sia la tratta delle persone. Dal 2015 il consumo è sanzionato in base alla legge di sicurezza cittadina, nota a livello popolare come Ley Mordaza, quando avvenga «in zone di transito pubblico» di minori, come scuole e parchi pubblici; o quando generi «un rischio per la sicurezza stradale».
Punito con sanzioni lievi per «esibizioni oscene» fino alle infrazioni più gravi, con multe da 601 a 30mila euro. La prostituzione si considera, dunque, una libera scelta. Eppure, in mancanza di rapporti ufficiali, vari studi indicano che l’80% di chi vende sesso lo fa contro la propria volontà. A confermarlo l’ispettore capo dell’Unità contro le Reti di immigrazione illegale della polizia nazionale, José Nieto, che stima in 16mila le persone identificate in zone di rischio. «Sono approssimativamente un terzo» del numero totale delle prostitute che si calcola ci siano in Spagna, dice Nieto, in mancanza di un censimento nei bordelli e nei club rivendicato da sempre dai gruppi di difesa dei diritti delle prostitute, come il Collettivo Hetaria. Donna, straniera, in gran parte irregolare, che «normalmente esercita per necessità e per trovare un’alternativa alla povertà», ma anche «giovanissimi, marginali e tossicodipendenti, senza via d’uscita», il profilo tracciato da Hetaria.
Lavorano nell’illegalità totale nei locali e postriboli che pullulano in periferia, lungo le autostrade, soprattutto alla frontiera franco-catalana di La Junquera. «Pagano ogni giorno un alloggio con una stanza e pensione completa e poi scendono al bar e avvicinano i clienti» assicurano all’associazione degli esercenti dei locali. In modo tale che «nella gran parte dei locali, il business è indipendente da quello della lavoratrice del sesso». Ammettono che «c’è chi lucra una commissione alle ragazze, anche se questo significa sfruttamento».
Molte le case chiuse occulte dietro società alberghiere: «Ne calcoliamo almeno 1.500 sul territorio iberico, con una media fra 10 e 50 lavoratori, anche se il numero è un costante aumento », si osserva. La loro attività non solo non è considerata fuorilegge, ma inserita nel computo del Pil nazionale. E se, a livello globale, la prostituzione muove fino a 160 miliardi di euro, secondo i dati citati nei rapporti del Parlamento Europeo, in Spagna il fatturato si aggira sui 22,8 miliardi annui, pari alla metà della spesa educativa.