Il pedagogista dell'Università di Bergamo, Giuseppe Bertagna
«Una classe dirigente degna di questo nome doveva fare di più e meglio». È molto arrabbiato e non lo nasconde, Giuseppe Bertagna, pedagogista dell’Università di Bergamo e stretto collaboratore dell’ex-ministra dell’Istruzione, Letizia Moratti. Il ritorno alla didattica a distanza, dopo poche settimane di scuola in presenza, non l’ha colto di sorpresa, perché nel suo ultimo libro La scuola al tempo del Covid. Tra spazio di esperienza e orizzonti d’attesa, in uscita per le Edizioni Studium, ha messo in fila tutti gli errori e le occasioni perdute del lockdown durato l’intero secondo quadrimestre dello scorso anno scolastico.
Che cosa è stato sbagliato?
Non voglio fare il Bartali della situazione. Ma con un minimo di prudenza, competenza e visione si doveva fare di più. E lo si doveva fare fin da febbraio sulla gestione del personale (compresa una deroga al contratto nazionale concordata con i sindacati e una conferma nella stessa sede di servizio di tutti i docenti per assicurare agli studenti, alla ripresa, la continuità educativa e relazionale, e non il balletto dei supplenti che non si è ancora concluso); fin da maggio sui modelli di organizzazione del lavoro scolastico che non potevano più essere quelli attuali (vecchi di 150 anni!); fin da inizio giugno sulla preparazione di un piano trasporti che smettesse di pensare all’orario delle lezioni iniziato e finito per tutti alla stessa ora; fin da febbraio sul rafforzamento immediato delle infrastrutture digitali che ancora escludono il 30% degli studenti e, nondimeno, su un piano di formazione dei docenti alla didattica digitale non concepita come scimmiottamento di quella in presenza. Si sono invece voluti affrontare e risolvere problemi nuovi e straordinari con le stesse procedure e soluzioni che avevano già fallito con quelli vecchi ed ordinari. La vicenda dei banchi (un miliardo di euro!) è in questo senso comicamente emblematica.
Quali conseguenze avrà, questa nuova chiusura, sul presente e sul futuro dei nostri ragazzi?
Dopo aver già perso 7 mesi, la nuova chiusura non promette nulla di buono. L’emergenza sanitaria, come quella economica, sono, infatti, paradossalmente, meno gravi di quella pedagogica, perché questa ha effetti di molto più lungo periodo. Purtroppo, i minori sono obbligati alla lealtà nei confronti delle disposizioni che si impongono loro. Però è un fatto che le scelte fatte abbiano pregiudicato e pregiudichino in profondità la qualità della loro formazione. E lo abbiano fatto e lo facciano nella psiche, nel corpo, nella socialità, sensibilità, intelligenza critica, cultura, integrazione civica, nei vissuti etico-religiosi, nella coltivazione della bellezza. Un fenomeno che si rivelerà più pericoloso del virus nascosto per ora sotto il tappeto della Dad. Basti pensare che nei lockdown è autorizzata l’uscita dei cani per due volte al giorno, ma non dei minori. Troppo comodo, allora, adesso, medicalizzare, con psicologi e psichiatri, questo disagio minorile. Servirebbero invece severi mea culpa pedagogici degli adulti.
Che cosa deve cambiare, in queste settimane, per far si che le scuole possano continuare in sicurezza?
Quando un treno è in corsa non solo non si può più scendere, ma anche non si possono più modificare la forma delle carrozze, le rotaie e, soprattutto, la destinazione. Nella situazione in cui siamo ciò che si può fare subito è allora diffondere almeno la consapevolezza che fare a distanza (che poi significa a casa) la stessa scuola che si è fatta finora in presenza (appelli, assenze, lezioni, interrogazioni, compiti a casa, competizione per i bei voti ecc.), se seda le ansie degli adulti, danneggia non solo l’una e l’altra ma anche e soprattutto la qualità della formazione degli studenti, aumentando i loro disagi e le loro già intollerabili disuguaglianze formative.
Come sta rispondendo la scuola a questa nuova sfida e come la sta cambiando? In meglio o in peggio?
Bisogna distinguere tra le buone intenzioni personali che in genere hanno i docenti e i vincoli strutturali di contesto che sono quelli che sono. Il rischio è che il personale della scuola si sottoponga ad uno sforzo enorme per poter continuare a fare ciò che ha sempre fatto, senza comprendere che è giunto il momento di raccogliere la sfida di paradigmi culturali, organizzativi ed educativi finora respinti. I soldi del Recovery fund sono a debito. Il rapporto debito Pil schizzerà al 250-280%. Se ci caricheremo di questo peso soltanto per manutenere la scuola esistente, povere generazioni future.