La regina Margherita di Savoia indossa il diadema in una foto d'epoca - Ansa
L'ironia della storia ha colpito. E ha fatto sì che, mentre si sta progettando un "conclave laico" per arrivare a una candidatura condivisa per l’elezione a presidente della Repubblica (nella speranza ovviamente di una durata inferiore a quella del famoso primo conclave di Viterbo dal 1268 per l’elezione del papa Gregorio X), ha fatto irruzione nelle cronache una questione monarchica, la rivendica, cioè, dei gioielli della Corona da parte dei discendenti di Casa Savoia, depositati presso la Banca d’Italia. La carica elettiva per la più alta magistratura della Repubblica, nata dalla cacciata dei Savoia, da un lato; gli eredi della monarchia all’epoca esiliata, dall’altro (mentre, per di più, l’Unione monarchica lancia Aimone di Savoia come possibile «grande presidente»).
Caduto il regime monarchico, Umberto II incaricò il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, di costituire le gioie in un deposito vincolato, da restituire a chi ne abbia diritto. Sono trascorsi da allora 75 anni, ma il deposito è rimasto tale e quale e l’avente diritto non è stato materializzato. In questi anni, frequenti sono state le richieste di chiarimenti sul deposito e la necessità di definire finalmente la proprietà dei gioielli, oggetto di stime che vanno dalle centinaia di milioni a solo qualche milione, come rileva un’indagine di Francesco De Leo.
Sussiste, comunque, un valore, innanzitutto storico, che va oltre quello venale. In questi giorni gli eredi Savoia hanno tentato, ma senza risultato, una mediazione con il governo il quale ritiene, invece, che la proprietà sia dello Stato. A questo punto, come annunciato dal legale dei Savoia, la vicenda si trasferirà nelle aule dei Tribunali. È prevedibile che sarà invocato un complesso di norme, interne e internazionali, per sostenere la proprietà "personale" della Casa reale, non dell’"istituto monarchia", e qui non ci si potrebbe meravigliare che si facesse riferimento pure alla Costituzione, nata dopo la cacciata dei Savoia. Il governo sarebbe fermamente convinto della proprietà delle gioie, divenuta ormai pubblica.
Alle sollecitazioni nel tempo la Banca d’Italia correttamente ha sempre risposto che essa è semplicemente depositaria e che attende la dimostrazione di chi ne ha la proprietà per svincolare il deposito. Lo stesso Draghi, all’epoca governatore a Palazzo Koch, sostenne a suo tempo questa linea scrivendo alla Presidenza del Consiglio perché assumesse una decisione. Sono trascorsi circa 16 anni e stiamo ancora al punto di prima.
Ora, però, a Palazzo Chigi c’è proprio Draghi e, pur non essendo questa la principale questione da affrontare - "a fortiori" ora che della sua posizione si discute, tra aspirazioni, autocandidature e ripiegamenti -, resta pur sempre che, per risolvere il problema, sono sufficienti criteri e indirizzi di normale amministrazione.
E, allora, perché non si smette di temporeggiare? Perché non si dice chiaramente, se tale è il convincimento, che le gioie sono beni della Repubblica e che il deposito va cambiato nella forma tecnico-giuridica propria dei beni dello Stato, senza attendere controversie giudiziarie? O si teme che le posizioni avverse possano avere successo (ma non si capirebbe come...)? Intanto, anche per l’immagine e la dignità della Repubblica, si dovrebbe decidere, abbandonando ogni atteggiamento dilatorio o ipotetici conflitti di competenza tra i ministeri: non vi è bisogno in questa vicenda di un Quinto Fabio Massimo. D’altro canto, pure gli italiani avrebbero diritto di conoscere quali sono i beni depositati da chi è stato costretto, dopo la tragedia della guerra, a lasciare l’Italia. E, magari, di vederli esposti al pubblico.