Un gruppo di donne musulmane - Siciliani
Due casi di cronaca in due giorni riaccendono l’attenzione sul dramma di tante ragazze musulmane che vivono in Italia: giovani donne che osano l’integrazione e che per il loro ardire vengono punite e ricacciate dalle loro famiglie nell’angolo fisico e psicologico della minoranza a forza di sberle, calci e pugni.
È successo a Matera dove lunedì un padre di 37 anni, pachistano, è stato arrestato dalle forze dell’ordine con l’accusa di maltrattamenti ai danni della figlia minorenne, "colpevole" di aver opposto resistenza alla volontà dell’uomo di farla sposare in Pakistan con un cugino mai visto né conosciuto. Un refrain di quanto già capitato a Brescia: qui ieri la Cassazione ha confermato la condanna a cinque anni di carcere per padre, madre e fratello - anche in questo caso di origine pachistana ma tutti con cittadinanza italiana - di quattro ragazze che hanno subito schiaffi, pugni e tirate di capelli perché non si comportavano da "brave musulmane".
Poco però c’entra la religione e tanto la cultura e in effetti le vicende in filigrana permettono di leggere un sistema sociale in cui si sfidano forze opposte. Da un lato, le sorelle di Brescia che si rifiutavano di studiare ogni giorno il Corano e di indossare abiti tradizionali della cultura pachistana; o la giovane di Matera alla quale veniva impedito di uscire con i compagni di scuola in Italia ed era sequestrato il telefono con l’obiettivo di isolarla e fare terra bruciata intorno a qualsiasi gruppo sociale esterno ai parenti.
Dall’altro padri-padroni e famiglie che si trasformano in nicchie culturali che non solo, pur vivendo da anni in Italia, restano passivamente separate dal resto della società ma che anche si adoperano attivamente per perpetuare la separazione a livello generazionale, proprio mentre nella loro stessa casa le loro figlie cercano, non senza fatica, un’identità propria che non vuole snaturare la propria origine ma che per forza di cose comprende l’inclusione.
In sostanza un patriarcato arcaico e vessatorio, reso ostinato dalla strumentalizzazione della religione islamica, si pone come un ostacolo sulla strada già impervia e a tratti ostruita da una diffusa resistenza sociale all’integrazione che tante di queste ragazze stanno percorrendo. Una strada alla ricerca del sé da cui prende le mosse, per esempio, il podcast "Huda, nessuna e centomila" (recentemente pubblicato da Chora Media e disponibile su tutte le piattaforme audio) dall’influencer ventenne e tiktoker brianzolo-marocchina Huda Lahoual, in arte Riphuda, che in sei puntate prova a raccontare cosa significa essere una ragazza di seconda generazione in Italia.
"Ho i capelli afro, il mio cognome non è proprio Fumagalli e tutti mi chiedono Non sei di qui, vero?" si presenta Huda nella puntata uno, in cui racconta anche il viaggio a Marrakech insieme a sorelle e cugina. "Tra le storie che più mi hanno impressionata c’è quella di Karima che ha dovuto sposare un nostro parente che avrà più o meno 80 anni. Questa è una delle cose che non ci farà mai sentire marocchine fino in fondo. Anzi, quando mia madre dice: "Ma non ti vuoi sposare?" io rispondo sempre: "Prima voglio studiare, avere la mia casa, la mia carriera. Prima voglio essere libera, in modo che il matrimonio non sia l’ultima alternativa possibile alla mia vita".