venerdì 15 settembre 2023
Ha colpito l'affermazione di Meloni sulla «battaglia per difendere Dio». Un riferimento benvenuto ma impegnativo, che apre lo spazio ad alcuni riflessioni su politica e religione
L'abbraccio a Budapest fra il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il primo ministro d'Ungheria, Viktor Orban

L'abbraccio a Budapest fra il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il primo ministro d'Ungheria, Viktor Orban - Ansa

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Ha colpito quel passaggio di Giorgia Meloni sulla «grande battaglia per difendere l’identità della famiglia, difendere Dio». Una frase potente, un concetto impegnativo in bocca a un presidente del Consiglio, che fa fare alla politica italiana un’evoluzione in stile americano, lì dove il rapporto fra politica e religione è molto complesso: dove il principio incontestato della libertà religiosa convive da sempre con i continui riferimenti a Dio, nei giuramenti e nei discorsi presidenziali, perfino sulle banconote. È una frase che interpella anche tutti noi cristiani. Non per il riferimento in sé, benvenuto da parte di una leader politica che ha il coraggio - sì, perché tale è oggi - di definirsi cristiana in un mondo sempre più secolarizzato. Per di più sul tema trattato a Budapest - quello degli interventi e del contesto culturale necessari per contrastare la denatalità - forti sono le consonanze fra i propositi di questo governo, attesi ora alla prova dei fatti, e le aspettative del mondo cattolico, e non solo. Tuttavia, quella affermazione lascia anche un retrogusto spiazzante, generatore di un qualche imbarazzo. In primo luogo, per quel tono così netto ed esplicito, non usato nemmeno da un Papa. La storia ci tramanda il ricordo dei “defensor fidei” dei secoli passati, ma qui la nostra premier è andata anche oltre: ha parlato espressamente di «difendere Dio», quasi un livello superiore sul piano terminologico perché il difensore per definizione può tutelare qualcuno che non è in grado di farlo da solo. Qui non si tratta semmai di difendere il divino, quanto di “non offenderlo”, come possono fare tutte quelle leggi, iniziative e tendenze culturali che mirano a indebolire la vita umana e la famiglia naturale, intesa come architrave della società. Da sempre - e di nuovo in particolare da alcuni anni -, l’aspetto religioso può essere utilizzato come uno strumento politico. Tutti ricordiamo le foto di Donald Trump con la Bibbia in mano, fino ad arrivare ai rosari sbandierati in Italia da Matteo Salvini. È un discorso che vale a ogni latitudine: Vladimir Putin ha esibito la sua ortodossia per riempire di contenuti l’eredità dell’ex impero sovietico. Anche il contesto, inoltre, può risultare come improprio, al di là della laicità dello Stato che ogni premier è chiamato a rappresentare: un conto è testimoniare la propria fede in una sede specifica, altro è evocarla in un consesso politico internazionale che può prestarsi a strumentalizzazioni di varia sorta, specialmente in un Paese noto anche per la linea ultra-dura sui migranti. Il rischio è sempre lo stesso: l’abuso di riferimenti a Dio e alla religione può servire a coprire i vuoti lasciati dall’inefficacia dell’azione politica, per far presa sui sentimenti della gente. Come ogni cristiano, Meloni sa che la vera rivoluzione del nostro Dio è quella di essersi incarnato nell’umano. Da non offendere sempre e ovunque.

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