È strano. Ma quando i rumori dell’isola di colpo si fermano e anche l’ultima motoretta smarmittata si fa sempre più lontana, da questi relitti di pescherecci che hanno solcato da una estremità all’altra del Mediterraneo, nel soffiare del vento è come se si udissero provenire delle voci, dei bisbigli, dei lamenti. Come quello che adesso sembra ricordare il richiamo di un neonato che ha fame, il singhiozzo silenzioso di una giovane donna che è stata violata, l’urlo terrorizzato di un uomo che si moltiplica all’infinito a invocare aiuto.Ma poi, di colpo, come un’onda di mare che passa sulla spiaggia e spiana l’impronta di un piede, è di nuovo tutto e solo silenzio di legni morti.Quelle barche che sembrano delle grosse bestie aggrovigliate, riverse su un fianco, allineate come il bottino di una battuta di caccia grossa, adesso solo prede per le macchine fotografiche dei turisti di settembre e dei cameramen approdati sull’isola, ancora parlano di storie umane.A scrutare in quell’ammasso di relitti abbandonati che pioggia e sole si stanno mangiando, se guardate bene, ancora potrete distinguere i contorni di una memoria in rilievo, come uno spettro destinato al suo esilio senza possibilità di pace. Lì, su quei legni, hanno navigato esseri umani in cerca di un approdo nuovo, un mondo nuovo. E anche lì, guardando bene, si possono vedere i contorni sfocati dei barconi che, invece, non ce l’hanno fatta e che sono finiti in fondo al mare, nel Canale di Sicilia, con quel grido di aiuto invocato in coro e le braccia dei naufraghi aperte spalancate al cielo in cerca di un appiglio, che non c’era. E poi buio. A picco nelle profondità. Come è stato per la terribile strage della notte del 3 ottobre di un anno fa, costata la vita a 368 persone, quasi tutte di origine eritrea e che, proprio in questo primo anniversario, verranno ricordate con una cerimonia intereligiosa promossa dalla Federazione delle chiese evangeliche e dalla arcidiocesi di Agrigento. Ci saranno anche alcuni sopravissuti e molti famigliari delle vittime. Arriveranno da mezza Europa e a quella stessa Europa chiederanno «perché l’Europa lascia morire le persone in mare?». Lo chiederanno con questo slogan coniato per l’occasione: "Proteggere le persone, non i confini" e lo porteranno al convegno che venerdì ospiterà i ministri Alfano e Mogherini, e Martin Schultz, presidente del Parlamento europeo.Forse sarà solo lo scherzo del vento, del brusìo del mare, che è lì a pochi passi dal porto di Lampedusa, dove ci sono i chioschi con le bibite fresche e dove si noleggiano motoscafi e divertenti "Mehari" per l’estate.C’è chi ti propone un tour attorno a questa stupenda isola che da più di trenta anni gli è stato posto lo stigma di "Lampedusa uguale sbarchi di clandestini, mare di corpi annegati". E con il turismo sempre più giù.Eppure lo dice anche Giovanni, il vecchio pescatore, che la notte «là nel cimitero delle barche con le scritte in arabo, non ci passo più, si sentono delle voci, dei rumori strani da avere paura». Ma forse saranno solo i topi che vanno a rosicchiare vecchi stracci che erano abiti e cose appartenute ai migranti fortunati, che qui sono approdati vivi e non ripescati cadaveri per finire in un sacco nero, senza un nome e senza più una storia propria che diventa impossibile da ricostruire anche avendo un Dna. Da dove sarà partito quel corpo? Da quale luogo di supplizio di una dittatura, di una guerra, di un Paese-prigione? A chi chiedere un dna di riscontro, a quale genitore, a quale famigliare? Qualcosa si può fare, ma è sempre una goccia in mezzo a un mare di disperazione.Adesso su quel groviglio di relitti sono stati puntati dei grossi fari, telecamere e microfoni. Un palcoscenico vivo quasi fosse uno spettacolo di teatro sperimentale dove per qualche giorno verranno messe a confronto idee, suggestioni, in una cornice di concerti e spettacoli che avverrano quasi simultaneamente per le vie dell’isola. Cinque giorni di Festival Sabir, "sul ruolo di Lampedusa come ponte fra i popoli nel cuore del mare Mediterraneo". Un forum internazionale di incontro fra culture, che però già suscita qualche malumore tra gli stessi organizzatori e nella popolazione dell’isola che si sente schiacciata da questa grande responsabilità di essere l’approdo della salvezza di chi giunge dal mare, ma altresì il simbolo di un fenomeno che sembra non trovare una chiave di svolta. Un marchio e troppe parole e pochi fatti, lamenta la gente di qui. Forse, un anno dopo quel 3 di ottobre 2013, è solo il momento per la preghiera e il ricordo.