Valeria Solarino e Neri Marcorè in una scena di "Quando", il nuovo film di Veltroni
Walter Veltroni deve "ricominciare da tre". La citazione del capolavoro di Troisi è assieme un invito e un auspicio per l’ex politico con la passione da cineasta, giunto con questo “Quando” (senza punto interrogativo) al suo secondo lungometraggio. Il già segretario del Pd, e prima dei Ds, porta ora sullo schermo il suo romanzo del 2017 per proseguire il viaggio nei buoni sentimenti (dopo la pellicola d’esordio del 2019 “C’è tempo”) che, in fondo, sono la cifra stilistica al contempo del Veltroni artista, come lo furono del politico. Un viaggio (in sala dal 30 marzo con Vision Distribution) che stavolta diventa “nel tempo” per raccontare la storia del 18enne Giovanni, militante del Partito comunista italiano interpretato da un efficace Neri Marcorè, la cui vita va in pausa, colpito alla testa dall’asta di ferro di uno striscione, il giorno dei funerali di Enrico Berlinguer il 13 giugno 1984, in quella piazza San Giovanni stracolma. Per poi risvegliarsi 31 anni dopo nel 2015, in un mondo profondamente cambiato. Dove – come ben sappiamo – la velocità dei mutamenti ha stravolto le vite ben più di quanto avvenisse nel passato. Tutto è diverso: la famiglia, la fidanzata Flavia (che si è sposata), il partito tanto amato, l’Urss che non c’è più. Per Giovanni si tratta di affrontare una rinascita da adulto, con l’unica compagnia in ospedale di Leo (Fabrizio Ciavoni), ragazzo problematico che non parla ma con lui si sblocca, e di suor Giulia che lo accudiva da anni (e che fa jogging ascoltando la musica di Cremonini), portata sullo schermo da una Valeria Solarino davvero brava. Come bravi sono Gian Marco Tognazzi (Tommaso) e Dharma Mangia Woods (la figlia del “risvegliato”). A ben vedere, Solarino è anzi l’aspetto migliore di un film che – ed ecco l’invito – rappresenta però una pagina da girare, per guardare oltre, nella crescita professionale - in ogni caso da apprezzare - di questa nuova vita di Veltroni, che finora ha dato il meglio di sé sul fronte dei documentari.
“Quando” è sicuramente un film anche politico, e questo incuriosisce come ovvio davanti a Veltroni. «Non c’è nostalgia, ma casomai speranza per il futuro», ha detto il regista alla presentazione. Una speranza che però, davanti al risveglio che il Pd a sua volta sta vivendo proprio in queste settimane con la segreteria Schlein, affonda comunque le radici nell’epoca che fu. «Era sbagliata l’ideologia, ma non gli ideali che ci animavano», dice in uno dei passaggi più “politici” il protagonista Giovanni che completa la sua rinascita (presente nel film anche con l’omonima libreria al piano terra della sede del Pci, oggi sostituita da un supermercato) con una rimpatriata fra gli ex compagni di sezione. Un’autodifesa forse un po’ semplicistica e priva di quella maturità che ci si aspetterebbe da Veltroni e che invece manca anche sul piano cinematografico: la sceneggiatura è stiracchiata e parecchio scontata e il film, che assume spesso tratti da melò, finisce col non avere il giusto ritmo. La stessa idea (ma questo è limite che risale al romanzo) non è certo originale, e proprio un cinefilo attento come Veltroni noterà, a suo svantaggio però, la differenza col godibilissimo “Good Bye Lenin”, film del tedesco Wolfgang Becker che già nel 2003 raccontava il trauma di una madre che finiva in coma nell’ottobre 1989, in piena Ddr, e si ridestava 8 mesi dopo, col muro di Berlino caduto. Veltroni allunga di molto il periodo, a oltre 30 anni, che passano con una carrellata d’immagini che Leo mostra a Giovanni sull’Ipad, dalle monetine contro Craxi (biasimate da Giovanni) al disastro nucleare di Cernobyl, dalla strage di Capaci e dalle Torri gemelle ai recenti sbarchi di migranti. Un arco temporale che, nella riprova di come storia e politica entrino nelle nostre vite anche quando “ci assentiamo”, avrebbe potuto offrire ben altri pretesti stilistici a Veltroni, che invece si rifugia nel “facile”, dall’episodio – pur molto toccante – dell’incontro con la madre ormai malata alla scena, abbastanza incomprensibile, in cui dopo aver evitato un ristorante stile “radical chic” (un’allusione politica?) Giovanni e suor Giulia si spostano in una semplice trattoria dove parte all’improvviso l’immancabile “Bella ciao”. Ecco, la “condanna” per Veltroni, che fu un politico certo originale, è che da lui ci si attende certo di più. E per fare questo passo forse gli farebbe bene anche staccarsi un po’ da quell’elite culturale dei media, più vicina alla sinistra, che non ha perso tempo a mettere in campo la grancassa mediatica a base di firme “di rango” e grandi spazi stanziati, degni di un capolavoro, per omaggiare una pellicola onesta ma non di più, alla prova dei fatti. «Può essere una fiaba. Forse è un modo per parlare di questo tempo e di noi, oggi», ha detto ancora Veltroni. Ecco, ora al prossimo, terzo film Veltroni ci dica molto altro di questo tempo. Lo attendiamo.