domenica 13 gennaio 2019
Lo psichiatra Giovanni Galli andò in Ruanda per salvare i bambini. E diventò padre di 6 figlie
Lo psichiatra Giovanni Galli con le sei figlie: le prime tre, che ha adottato, sfuggirono molto piccole al genocidio ruandese

Lo psichiatra Giovanni Galli con le sei figlie: le prime tre, che ha adottato, sfuggirono molto piccole al genocidio ruandese

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«Appena varcai il confine mi colpì l’odore di cadavere che impregnava tutto. I morti erano sparsi ovunque, interi o a pezzi, e i vivi avevano lo sguardo perso nel vuoto, sopravvissuti nel corpo ma morti dentro. Quell’odore mi è rimasto impresso per anni». Era il maggio del 1994 e Giovanni Galli, giovane psichiatra bolognese, andava nel luogo da cui tutti fuggivano, il Ruanda del genocidio più cruento del Novecento, certamente il più rapido: «Durò solo cento giorni, dal 6 aprile 1994 a metà luglio, durante i quali ottocentomila persone furono uccise a colpi di machete, martelli e bastoni chiodati, prima gli adulti, poi i bambini». Erano gli Hutu contro i Tutsi, fino al giorno prima tutti pacificamente ruandesi, compagni a scuola e colleghi al lavoro, amici e vicini di casa, sposati tra loro e imparentati. Poi, improvvisamente, nemici. «Nel mattatoio per animali che c’era vicino a noi, furono messi in fila e massacrati uno a uno. Persino nelle chiese dove si rifugiavano furono chiusi dentro e uccisi tutti, cristiani contro cristiani» (nella sola chiesa di Nyarubuye ventimila civili furono massacrati tra il 15 e il 16 aprile del 1994). Un genocidio programmato con diligenza: dalla Cina erano stati importanti 581mila machete, l’arma più economica e straziante. E la radio nazionale ruandese spronava gli Hutu al massacro degli «scarafaggi Tutsi» e guidava le squadre della morte dettando i nomi e gli indirizzi. Come obbedendo a un ordine infernale, amici, colleghi, parenti, persino coniugi e figli divennero persecutori l’uno dell’altro.

In tutto questo, il giovane medico con un C130 dell’aviazione militare italiana cercava insieme a padre Tiziano di portare viveri e medicinali all’orfanotrofio di Nyanza, nel sud del Paese, dove i padri Rogazionisti nascondevano ottocento bambini. «Il console Pierantonio Costa aveva provato a convincere i missionari a lasciare il Ruanda, ma invano – ricorda Galli 25 anni dopo –, allora per proteggerli aveva circondato l’orfanotrofio con bandiere italiane e un enorme striscione con su scritto 'Consolato d’Italia'». Prima ancora di arrivare in Ruanda l’intero carico di aiuti andò perduto: «A Kampala, in Uganda, i Comboniani ci hanno aiutati a caricare tutto su tre camion, ma poi gli uomini che ci dovevano scortare ci hanno assaliti e derubati di tutto, così siamo tornati a Kampala solo con i nostri pantaloni e la maglietta».

Ma il piano B della Provvidenza si chiamava Avsi, Associazione volontari per il servizio internazionale, che ha procurato altri camion, farmaci e cibo, e dopo due giorni, tra ponti fatti saltare e agguati, lo psichiatra è arrivato a Nyanza... «Nelle sale di chirurgia da campo della Croce Rossa giungevano continuamente persone mutilate, non si andava per il sottile, anche uno psichiatra andava bene per ricucire» e ancor più per tenere insieme i pezzi di un’umanità annientata. A luglio il genocidio si era compiuto, ma la vera emergenza doveva ancora cominciare, «non solo bisognava trattare il trauma da guerra – racconta Giovanni Galli – ma anche rintracciare gli adulti rimasti in vita ed eventualmente imparentati con migliaia di bambini soli, magari uno zio, un cugino... In due anni, fino al 1996, con Avsi e i Rogazionisti abbiamo fatto seicento ricongiungimenti, inoltre formavamo il personale locale per ricostruire un corpo insegnanti e cercavamo di riattivare le strutture sanitarie insegnando a riconoscere i segni del trauma psichico. Insomma, c’era fame di risorse umane per ricostruire da zero un’umanità». E tra gli assistenti sociali che si fanno avanti c’è L., vedova, il marito insegnante caduto sotto i colpi di un machete, tre figlie – 3 anni, 2 anni e l’ultima un mese di vita – nascoste in campagna da sua madre. «Gli Hutu prima uccidevano i maschi sistematicamente, adulti e piccini, poi cercavano le donne e le bambine – spiega lo psichiatra –. Erano scene da Erode, non si fermavano di fronte a nessuno, anche l’ultimo dei Tutsi doveva morire. Le sorelle di L. non ce l’hanno fatta». Quando i due si incontrano, Galli ha 34 anni, lei dieci di meno. È una vera manna per il lavoro di 'tracing', la ricerca dei dispersi, ma soprattutto ha una dignità innata: sa dare e non chiede niente, anche se ha tre bambine da crescere. Pochi mesi dopo Giovanni e L. si sposano e da loro nasceranno altre tre figlie, la prima in Ruanda, le altre due in Italia. «Sono tutte e sei ugualmente figlie mie e tutte sono cittadine italiane», sorride il medico nel suo studio sul Lago di Garda (oggi è responsabile delle comunità di Riabilitazione psichiatrica nella sanità pubblica locale), presentando la sua famiglia. Le prime tre le ha subito adottate («nella tradizione ruandese portano cognomi bellissimi, 'La più desiderata', 'Dolce come il latte'...»), del genocidio non ricordano nulla, sono cresciute in Italia, all’inizio qualche insulto razzista a scuola se lo sono prese «ma cosa vuole che sia, con quello che avevano visto!». Oggi la più grande insegna Lettere a Bergamo, la seconda è laureata in medicina a Brescia, la terza in psicologia a Padova, la quarta studia medicina a Bologna, la quinta ingegneria a Milano, la sesta frequenta lo scientifico. «Nel 2007 abbiamo visitato tutti insieme il Ruanda, la terra che ha segnato i nostri destini e che evidentemente portavo scritta nel Dna. Appena laureato, nel 1985, già desideravo andare in missione e nella mia parrocchia salesiana a Bologna c’era un’associazione 'Amici del Ruanda', con cui partii. Mai avrei immaginato quello che anni dopo sarebbe successo».

Non si è mai fermato, il dottor Galli, tuttora spesso in missione con la onlus 'Resilience', fondata con gli amici al suo rientro in Italia per formare operatori sanitari in Paesi come Haiti, Congo, Palestina, Libano, Kazakistan. «Stima e amicizia ci legano ad Avsi e Ummi, Unione medico missionaria italiana – spiega –. Insieme desideriamo far passare l’idea che nella relazione di aiuto, in qualsiasi parte del mondo avvenga, ognuno di noi non è solo un operatore che porta sostegno da fuori, ma un valorizzatore delle risorse umane che ogni comunità si porta dentro. In questo modo, l’altro non è l’oggetto passivo, ma insieme a noi è soggetto e protagonista del cambiamento. Ogni persona, indipendentemente da quello che fa, ha un valore per quello che è, perché Dio l’ha voluta e pensata. Dietro non c’è un aspetto meramente filantropico, ma la coscienza della dignità di ogni uomo, che spesso è difficile riconoscere ma che abbiamo il compito di scoprire».

È lo stesso sguardo con cui venticinque anni fa in Ruanda ha guarito centinaia di bambini, oggi padri e madri di famiglia che mai lo hanno dimenticato. Sul cellulare ci mostra la foto ricevuta giorni fa da Parigi, un bel ragazzo con lo zigomo e il naso separati da una profonda cicatrice: «L’ho suturato io, come vede non molto bene», sorride. E poi c’è Solange, le gambine mozzate da un machete, costretta a strisciare per terra. Oggi è laureata e per anni lo ha cercato: «L’aiuto psicologico è stato più utile della protesi – gli ha detto quando l’ha trovato –, con l’anima morta non avrei saputo che farmene delle protesi. Ci avete dimostrato che la vita non è definita da quello che manca, ma da quello che siamo e che possiamo tornare a essere nonostante il dramma». Ma chi proprio non scorda è Dusabe (in ruandese 'Preghiamo'), 10 anni, gettata dentro l’orfanotrofio dalle mani disperate della madre in fuga dai massacratori: «Dopo settimane di silenzi e rifiuto della vita, un giorno mi prese la mano e se l’appoggiò sulla testa. Nemmeno un genocidio è più potente di quel gesto d’amore».

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