C’è una domanda, forse l’unica inevitabile, che in queste ore martella la testa e non ci fa dormire: quando finirà la notte? Perché dal 7 ottobre, dall’orribile attacco di Hamas a Israele, siamo dentro un incubo di morti ammazzati, di cadaveri maltrattati, di ostaggi che non sai quanti siano e dove, di feste musicali diventate marce funebri. E domani, con Gaza senza cibo ed energia elettrica, sarà un nuovo inferno di bambini che piangono, di malati senza cure, di sirene impazzite, di case distrutte. No, non finirà presto questa notte che si porta addosso decenni di odio reciproco, di lezioni di intolleranza, di provocazioni e vendette, di accordi sottoscritti e mai rispettati. Tanto che chi osserva da fuori avrebbe voglia di dire “basta”, di coprire gli occhi davanti all’orrore, di tapparsi le orecchie per non ascoltare il rumore delle bombe, di eliminare dal proprio vocabolario luoghi di cui non sa neppure pronunciare il nome.
Ma non è possibile, perché non esiste nessun altrove, perché il Medio Oriente è cuore, non solo religioso, del mondo, perché siamo un’unica famiglia umana. Anzi, sempre di più dobbiamo calarci mani e piedi nel buio, per capire fino a che punto siamo sprofondati, per vedere se esiste un appiglio, una corda o anche solo una mano tesa che provi a tirarci su. O almeno ci mostri la luce.
E poi la speranza va alimentata proprio lì, nell’angolo cieco della storia tra chi sputa per terra il suo rancore e chi, al contrario, si china a raccogliere il dolore degli altri. Speranza che, nella visione cristiana, non è scuola di illusioni ma dare del tu all’oggi, è, per citare Candiard, il coraggio della realtà.
Non crea paradisi immaginari la speranza, non vela gli scandali e la violenza, ma vive il presente, lo interroga, scandagliando i cuori alla ricerca di quel pezzetto di cielo che ognuno porta dentro di sé. Come il cantiere aperto in una città devastata, tra le macerie c’è sicuramente del materiale buono che servirà per ricostruire, ci sarà una pietra che potrà diventare “testata d’angolo”, ci sarà una persona capace di insegnare il dialogo guardandoti negli occhi. Si tratta però di fare il salto nella fiducia in Dio, di rinunciare alle reti di sicurezza soltanto umane e, anche se il mondo ci fa paura, di non chiudersi nel proprio io o nella comfort zone di qualche amico. Perché la speranza non è aspettare la fine e che il Signore distrugga tutto il male ma trovare il bene dove già esiste, alimentandolo dentro e fuori casa nostra.
Anche a questo serve la preghiera, a trovare un raggio di sole nell’oscurità più nera, ad andare oltre le offese, a imparare a guardare il prossimo e la storia con gli occhi di Dio. In queste ore si moltiplicano le veglie e i momenti di riflessione, con la Cei che ha indetto per il prossimo 17 ottobre una giornata di digiuno, preghiera e astinenza.
Nessuno naturalmente si illude che di colpo subito dopo scatti la pace, così come in Ucraina si continua a combattere malgrado le invocazioni che quotidianamente salgono al cielo da ogni parte del mondo. Pregare non è magia, non è la monetina (o la app) con cui paghi il caffè alla macchinetta, nella sicurezza che, buono o cattivo, comunque riempirà il bicchierino. Non dà garanzie, anzi può persino fare male perché, come una goccia nella roccia, ti scava dentro giorno per giorno fino a raggiungere ferite che neppure conoscevi, fino a mostrarti come sei davvero, così da poterti offrire senza maschere agli altri.
Nessuno si salva da solo vuole dire anche questo, che non esiste preghiera in odio al mondo, che chi lo maledice bestemmia, che alla base di un credo religioso, quale che sia, non può mai esserci l’intolleranza. Ma per capirlo bisogna mettere in campo tutta l’umanità che abbiamo nella testa, nella braccia e nel cuore, quella che cresce nel dialogo con il Padre buono, certi che esiste e ci ascolta. Al profeta Geremia del resto il Signore non ha promesso gioie e successi, ha semplicemente garantito la sua presenza. Allora e sempre. Anche nei kibbutz in cui Hamas ha seminato morte e orrore, anche a Gaza al buio e senza cibo, anche nelle stanze della politica che rifiutano la negoziazione. Persino nelle domande in apparenza senza risposta, come quella che ci martella la testa e non ci fa dormire: quando finirà la notte?