L’idea di rinunciare a parte dei progetti del Pnrr e dei relativi finanziamenti che circola per il Paese e che la Lega ha tentato di brandire questa settimana, salvo fare una repentina retromarcia, sarebbe un vero autogoal. Semplicemente perché prendere i soldi a prestito dalla Commissione Europea col Piano nazionale di ripresa e resilienza costa molto meno che finanziarci sui mercati internazionali soprattutto in un momento in cui i tassi stanno salendo.
Secondo i calcoli fatti da Chiara Manenti, strategist della banca Intesa Sanpaolo, in trent’anni l’Italia pagherebbe 25,2 miliardi in più in termini di interessi se si dovesse affidare alle normali emissioni di Btp (i Buoni del Tesoro) trentennali invece che ai bond European Union con cui regolarmente la Commissione fa provvista sul mercato e ci presta i soldi. Mentre in Italia ci si azzuffa su cantieri, tempi, scadenze, burocrazia, scuole e stadi, sarebbe bene fermarsi un momento a pensare che a monte di tutta la costruzione c’è questa architettura finanziaria. Dato per scontato che l’operazione Pnrr è positiva e serve a rilanciare le economie, soprattutto quella italiana, è necessario sottolineare che costa molto meno di quanto il denaro a prestito costerebbe a tassi di mercato. L’esercizio di simulazione fatto da Chiara Manenti considera prudentemente i circa 60 miliardi di prestiti che sono la somma di quanto già erogato dalla Commissione e di quanto arriverà, se tutto andrà bene, quest’anno. Naturalmente l’ammontare dei risparmi in termini di interessi, valutato su 60 miliardi, è destinato a crescere quando avremo ottenuto l’intera cifra dei cosiddetti “loans”, cioè i prestiti, che a fine percorso per l’Italia saranno 120 miliardi (su 191 miliardi circa del complesso del Pnrr) facendo ipotizzare, con tassi stabili ad oggi, un risparmio per il nostro Paese, per circa 50 miliardi di euro.
Il differenziale tra le emissioni European Union e i Btp, su analoga scadenza, in concomitanza con l’ultima erogazione avvenuta nel novembre scorso era infatti superiore al punto percentuale, uno spread che ci avvantaggia in modo significativo. Basti osservare che nel novembre scorso il Btp 2052 dava un rendimento del 4,36% e che l’analogo titolo trentennale emesso dalla Commissione per finanziare i vari Pnrr, tra cui quello italiano, rendeva e costava molto meno, cioè il 3,27%, una differenza di circa 1,1 punti percentuali. Complessivamente circa un miliardo di spesa per interessi all’anno per il nostro Paese, che con l’aumento dei tassi d’interesse da parte della Bce si trova a dover fronteggiare costi crescenti. Per non contare la possibilità di potersi indebitare a trent’anni a tasso fisso e naturalmente poter evitare il rischio politico, con conseguente spread, che va tutto a carico della solidissima Commissione Europea che su questi titoli ha avuto la tripla A. Questa circostanza, cioè il basso costo dell’indebitamento, spiega anche perché Paesi che sono in possesso di rating alti e tripla A, come la Francia e la Germania, non hanno preso soldi a prestito con il Pnrr. Non si è trattato in questi casi di timidezza o scarso coraggio, ma semplicemente Parigi e Berlino non hanno trovato conveniente il raffronto con i tassi europei perché, a differenza del nostro Paese, i loro tassi d’interesse sono uguali o addirittura più bassi rispetto ai titoli europei. Solo la Spagna, pur avendo convenienza nello spread, ha rinunciato ai prestiti, ma negli ultimi tempi sembra che ci stia ripensando. Perché darci la zappa sui piedi?