giovedì 21 agosto 2014
Protesta Amatrice (Rieti): pronta secessione dal Lazio. Ma il ministero tira dritto: piano approvato.
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Piccoli, con pochi pazienti, e dunque inefficienti. La logica della riorganizzazione della rete ospedaliera a grandi linee è questa. Peccato che è difficile spiegare a chi ha il compito di rimettere in piedi una sanità regionale dissestata che anche un mini presidio in mezzo alle montagne ha un suo perché. Una sicurezza per chi vive tra strade tutte curve e splendide gole verdi, ma soprattutto una ricchezza per i cittadini altrimenti costretti (con collegamenti spesso fatiscenti) a dover percorrere molti chilometri per potersi curare. Così per difendere il piccolo ospedale di Amatrice (Rieti), un paese di 2.500 abitanti tra Lazio, Abruzzo e Marche, il sindaco è disposto anche a ricorrere al Tar e ad andare in fondo sulla strada della secessione. Tutto questo perché il decreto del commissario laziale alla Sanità riconverte in Casa della salute il locale ospedale Grifoni, una struttura che dal 1994 al 2010 ha perso via via gran parte dei suoi reparti e ora lotta per mantenere almeno lo status di presidio ospedaliero in zona disagiata. «Questa regione non ci rappresenta più – dice il primo cittadino Sergio Pirozzi – anzi ci vuole morti. E noi prima di scomparire ce ne andiamo». Dove? Abruzzo o Marche non è ancora chiaro, anche se il Consiglio comunale ieri ha fatto solo la prima mossa di un lungo iter: l’indizione di un referendum consultivo per il distacco dal Lazio.  In paese non la pensano tutti come lui, convinti che i legami con Roma siano più profondi di quelli con L’Aquila o Ascoli Piceno, ma certo si è tutti uniti per trattare ad oltranza almeno per salvare parte dei servizi ospedalieri. Servizi che, in una nota, la Regione assicura saranno ad Amatrice gli stessi dei presidi in zone svantaggiate. «La polemica perciò non ha motivo di esistere», taglia corto. Ma il caso di Amatrice è solo uno delle mini cliniche italiane che oggi rischia di chiudere. In lista ce ne sono altre 72 per un totale di circa 2.800 letti - sono le strutture ospedaliere con meno di 60 posti letto previsti dal patto per la Salute – in testa la Sicilia con 23 presidi in via di chiusura, seguita da Lombardia (10), Sardegna (8), Lazio e Campania (6). In realtà, anche se la linea di confine resta quella dei letti, molte Regioni stanno da tempo intervenendo chirurgicamente in base alle unità operative sottoutilizzate, accorpando reparti. Ma il rischio chiusura non è scongiurato affatto, soprattutto per quei territori sottoposti a piani di rientro. Come l’Abruzzo, appunto. Qui si valuta la fine di strutture come l’ospedale di Tagliacozzo, il terzo comune della Marsica per estensione ed abitanti. La prima battaglia il comitato cittadino pro-presidio l’ha vinta, mantenendo per adesso il pronto soccorso aperto giorno e notte. «Con comunicazioni impervie e clima difficile – dice infatti la responsabile del comitato Rita Tabacco – non si può finire a chilometri di distanza in ospedali che già scoppiano». Si perderebbe, insomma, in sicurezza e civiltà.  Le questioni sono le stesse dalle Dolomiti all’Etna. A Vipiteno (Bolzano) ha già chiuso il punto nascite, sacrificato solo per non aver raggiunto i 500 parti all’anno. Stessa strada sta intraprendendo l’ospedale di Messina e le strutture della Valle Brembana. Proprio qui il sindaco di San Pellegrino Terme è tra i promotori del Comitato 'Diamo un futuro all’ospedale di San Giovanni Bianco'. «Un nuovo attacco alla montagna e alla sua gente », ammette Vittorio Milesi riferendosi alla fine del reparto ostetricia. Tra chi lotta per la sopravvivenza c’è anche il nosocomio di Tinchi in Basilicata, con il comitato cittadino che alcune settimane fa ha scritto anche al Papa chiedendo «di non esser lasciati soli in questa infelice periferia». Va superato tuttavia il totem dei letti, secondo il presidente della Fiaso (Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere) Francesco Ripa di Meana, così come «la logica della chiusura a favore della riconversione» dei piccoli ospedali, concentrando lì «tecnologie diagnostiche » e tutte quelle attività che si possono fare «in sicurezza in luoghi isolati ». Perché, conclude, «posti letto non vuol dire salute» e soprattutto non è buona sanità avere strutture in cui «c’è la chirurgia e non la rianimazione». 
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