martedì 6 settembre 2011
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L’avvertimento mattutino di Draghi e il cartellino arancione serale di Napolitano sono due botte pesantissime per il premier. Che lo costringono senza se e senza ma a riaprire il file più pericoloso per la tenuta del governo: la riforma delle pensioni, l’unico intervento strutturale a portata di mano e realizzabile in tempi-record. Un punto sul quale Bossi si è opposto furiosamente sin dal primo momento, mettendo la faccia nei comizi padani, e costringendo il Cavaliere alla ritirata (il secondo tentativo, operato da Sacconi, è stato smantellato da Cisl e Uil). Dal fortino di Arcore partono verso via Bellerio (sede della Lega) telefonate di fuoco. «Umberto, siamo sull’orlo del baratro...». Nel primo pomeriggio nei locali del Carroccio si presenta, con mandato del premier, il ministro dell’Economia. Ha in tasca due proposte: l’innalzamento graduale dell’età pensionabile delle donne dal 2012 e non dal 2016 e un intervento "hard" sulle pensioni di anzianità, portando le quote a 97 nel 2012, 98 nel 2013 fino ad arrivare con gradualità a 100. «Non se ne parla», la risposta del Senatur. Il titolare del Tesoro lascia allora la Padania e corre a Roma, per capire di persona cosa chieda la Bce per continuare a sostenere il debito pubblico italiano, quali siano le misure «efficaci e credibili» che il Colle reputa indispensabili per rafforzare la manovra. E si torna sempre lì, alle pensioni. E al veto leghista, insostenibile alla luce del lunedì nero di piazza Affari. Berlusconi vede nitidamente il rischio che il castello crolli. Sente che la tenaglia della crisi economica ormai fa tutt’uno con le sferzate europee e quirinalizie, con i veti di Bossi, con le rigidità di Tremonti, con i suoi guai giudiziari e con il pressing delle opposizioni su Pdl e Lega perché lo "mollino". E barcolla, vacilla. Con i suoi si sfoga: «È un gioco sporco indicare Silvio Berlusconi come il responsabile di tutto, la crisi è globale ed europea». Abbattuto, anzi «nauseato» da ciò che potrebbe uscire dall’inchiesta sui presunti ricatti a suo danno da parte di Tarantini (oggi dovrebbe essere fissata la data dell’interrogatorio del premier come parte lesa), guarda ormai con sospetto agli altri giocatori della partita-crisi, agli scricchiolii che sente sempre più forti nella sua maggioranza. «Io reggo, posso superare tutto, e voglio arrivare fino al 2013. Una crisi di governo ora sarebbe una sciagura per il Paese. Ma qui tutti sembrano giocare allo sfascio...». Parole amare, che restituiscono un senso di assedio. La palla allora torna alla Lega. Che in serata con Maroni non lancia segnali rassicuranti sulla modificabilità in extremis del decreto: «Il testo è quello uscito dalle commissioni, non penso cambierà». Se fossero parole definitive, se fosse una risposta voluta e pensata al Colle, potrebbe rappresentare una pietra tombale sul sostegno Bce (giovedì il board dell’Eurotower deciderà se comprare ancora bot italiani) e sui rapporti con il Quirinale. Perciò il pressing sulla previdenza continuerà sino all’ultimo secondo utile, e sarà il vero banco di prova della fedeltà di Umberto. L’altra arma d’emergenza per blindare i conti, è noto, si chiama Iva. Berlusconi ha provato a riparlarne ieri con Tremonti, ma ancora una volta non ne avrebbe cavato nulla. D’altra parte, osserva il ministro del Tesoro, non si tratta di una misura strutturale in grado di tranquillizzare i mercati, e se si unisse un’impennata dell’inflazione alla probabile recessione dell’area Euro, allora davvero si dovrebbe mettere sull’uscio di palazzo Chigi il cartello "the end".
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