Una manifestazione a Roma per chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni - Ansa
Il «dovere di salvaguardare la dignità umana» impone allo Stato italiano di accertare con un processo se sia stato commesso da parte di agenti pubblici il reato di tortura che ha una «radicale incidenza» proprio su questo bene. «Non è accettabile, per diritto costituzionale interno, europeo e internazionale» la paralisi senza fine del processo per l'impossibilità di notificare gli atti a causa della mancata cooperazione del Paese di appartenenza degli imputati. Perché questo ostacolo determina «un'immunità de facto» che offende la vittima, il principio di ragionevolezza e gli standard di tutela dei diritti umani recepiti e promossi dalla convenzione di New York.
È questo il cuore della sentenza con cui la Corte costituzionale ha interrotto la stasi del processo per l'omicidio, il sequestro e la tortura di Giulio Regeni, sancendo che il giudizio davanti alla Corte d'assise di Roma a carico degli 007 egiziani si può e si deve celebrare, nonostante sia stato impossibile notificare loro gli atti a causa dell'ostruzionismo delle autorità del Cairo, che non hanno mai fornito i loro indirizzi.
La decisione che ha ridato la speranza di ottenere finalmente verità e giustizia ai familiari del giovane ricercatore friulano, scomparso il 25 gennaio del 2016 e poi ritrovato senza vita dieci giorni dopo, risale al 27 settembre scorso. Ora però la sentenza, firmata dal giudice Stefano Petitti, è stata depositata. Ed è dunque possibile capire il ragionamento che hanno seguito i giudici costituzionali nel dichiarare illegittimo l'articolo 420 bis, comma 3, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti di tortura di Stato a cui fa riferimento la Convenzione di New York, quando, a causa della mancata assistenza del Paese di appartenenza dell'imputato, è impossibile avere la prova che quest'ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo.
La Corte esclude che in casi come questi il giudizio condotto in assenza degli imputati si traduca in una violazione del principio del giusto processo. Perché l'imputato ha il diritto in ogni fase e grado del giudizio di ottenere la riapertura del processo in presenza.
Con il deposito delle motivazioni della Consulta ora il gup di Roma Roberto Ranazzi potrà riaprire il dibattimento e disporre un nuovo rinvio a giudizio davanti alla Corte d'assise di Roma per il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif. Un passo che i genitori di Giulio sperano sia compiuto entro la fine dell'anno.