«Si avvicina il momento della verità e sono sempre più fiducioso. Prima speravo nel Sì, oggi ci credo. Perché è arrivato il momento di cambiare. Di scommettere su una riforma buona. Di dare forza a una direzione di marcia». Per qualche minuto ascoltiamo in silenzio Pier Carlo Padoan. Nulla sembra casuale. La scelta degli aggettivi, i silenzi, il modo di parlare a bassa voce, l’attenzione a evitare allarmismi. «Non c’è nessun rischio di un terremoto finanziario. Mercati e spreadnon sono il problema principale. Ci potranno essere quarantott’ore di turbolenza ma poi, come dopo la Brexit, la nebbia si diraderà e tornerà la normalità. Il problema vero, se vincesse il No, sarebbero i costi che si scaricherebbero addosso alle nuove generazioni. È così, è negli anni che l’Italia pagherebbe il prezzo più duro». Proviamo a capire e Padoan non si sottrae. «Abbiamo spinto e l’Italia è cambiata. Oggi siamo andati avanti, stiamo meglio di tre anni fa. L’economia va e la crescita progressivamente accelera. Ce lo conferma l’Istat indicando un aumento tendenziale del Pil che finalmente raggiunge l’1 per cento. Ma un no al cambiamento bloccherebbe i motori del Paese e ci condannerebbe a una nuova stagione di immobilismo. Una drammatica ingessatura istituzionale si scaricherebbe su una Italia che per vent’anni ha camminato col freno tirato». Siamo a via XX Settembre, la roccaforte del Tesoro, per capire dal ministro dell’Economia cosa succederà lunedì. Quali scenari, quali ripercussioni dopo il referendum. Padoan è netto: «Vince il Sì, i sondaggi sbagliano ». Una pausa leggera e un sorriso enigmatico. «Dicono che il No sia avanti, ma verranno smentiti...». Poi annota: «Da professore un po’ pedante ricordo che c’è anche l’errore statistico... ». Non è una fiducia irrazionale. E nemmeno tattica. «Gli elettori stanno entrando nel merito. Si comincia a capire la forza di questa riforma. Indipendentemente dallo schieramento». Padoan cerca le parole giuste per calibrare il messaggio. «Ci si lamenta che questo referendum sta dividendo il Paese. Io la vedo in una maniera diversa: in realtà lo sta riaggregando su una politica giusta. Chi vota Sì lo fa perché ha capito che questa è una riforma buona che avrà un impatto positivo nel medio termine e benefici crescenti nel tempo. Per l’economia, per i meccanismi legislativi, per i costi della politica. Chi vota Sì ha capito che non ci saranno altre occasioni di cambiamento in un orizzonte temporale breve e che l’immobilismo ci trascina inesorabilmente indietro».
Crede che la scelta sul referendum possa condizionare future alleanze?
La geografia politica fa emergere, da mesi e con nettezza, tre poli. Ma domenica i poli saranno due: quello che vuole il cambiamento e quello che lo rifiuta, che lo respinge, che lo nega. Non so se questo possa aprire la strada a riaggregazioni. So però che la politica farà i conti, in Italia e in Europa, con la crescente domanda di cambiamento che si alza dalla società.
Cambiamento che si lega con malessere, con insoddisfazione, con sfiducia. Non crede che tutto questo sia una spinta al fronte del no?
È vero, il no fa leva sul malcontento ed è dovere della politica dare risposte, soluzioni concrete. L’Italia ancora non va come vorremmo e anche l’Europa troppo spesso da l’impressione di non fare davvero i conti con le troppe emergenze. Gran parte dei Paesi Ue non stanno bene. C’è crescita bassa, disoccupazione, esclusione sociale. La politica deve porsi l’obiettivo di far crescere l’economia e creare posti di lavoro ma in modo inclusivo, evitando che i benefici siano concentrati in alcuni segmenti della popolazione. Ma non ci sono solo ombre. C’è anche luce. C’è il lavoro fatto dal governo. Penso spesso a come si orienteranno quelli che non hanno ancora deciso...
E trova ulteriori motivi di fiducia?
Dal no in tanti si stanno spostando al sì. Perché la domanda che si faranno in cabina elettorale sarà una: in questi tre anni il Paese è migliorato o no? La risposta? Questo Paese è migliorato. C’è ancora molto da fare e noi non siamo ancora soddisfatti, ma si sta meglio di prima. Ci sono più occupati. Ci sono più certezze e meno incognite.
Ma cosa lega il fronte del no?
L’ostilità a Renzi. Solo questo ha unito personaggi e formazioni politiche che fuori dalla campagna referendaria non sono uniti da nulla e, anzi, spesso si combattono ferocemente sul piano politico e intellettuale. È un no di rifiuto, di protesta, giustificato dal malcontento diffuso. Il no sarebbe un colpo duro proprio in quanto no e basta. Dietro non c’è una controproposta, non c’è una vera alternativa.
Qual è l’arma per spingere il Sì?
Sul piano economico la riforma costituzionale ha il pregio di permettere anche alle altre riforme di funzionare meglio. Un esempio che mi piace fare è la combinazione del Titolo V con la riforma del lavoro, che toglie di mezzo un’ambiguità: finora lo Stato si è occupato di ammortizzatori sociali e le Regioni delle politiche attive del lavoro. Risultato: oggi c’è una asimmetria di funzionamento, le Regioni a volte s’impegnano poco sul fronte di loro competenza perché sanno che non sono loro a gestire l’altra leva. Lo stesso Jobs act funzionerà meglio nel nuovo quadro istituzionale.
Vede altri benefici?
Sulle infrastrutture vedo un effetto potenziale estremamente potente, tanto più che il governo sta rimettendo in moto la macchina degli investimenti pubblici. C’è il noto esempio della via Flaminia, un po’ statale, un po’ regionale, un po’ provinciale. Serve una politica per le infrastrutture capace di andare oltre i confini regionali. Fuori dal contesto referendario, questi sarebbero accolti da tutti i cittadini come argomenti di buon senso, capaci di debellare assurdità che ci portiamo dietro da decenni.
Se vince il No diverrà più difficile centrare nel 2017 una crescita all’1 per cento, per taluni già sovrastimata, e quindi servirà una manovra correttiva?
No, non vedo impatti del No sulla finanza pubblica. Torno a fare il professore pedante: la capacità di previsione dei modelli del Tesoro si è rivelata più affidabile di taluni osservatori. Richiamo ancora i dati sul prodotto interno lordo diffusi oggi da Istat, che confermano l’affidabilità delle nostre stime, peraltro prudenti. E la legge di Bilancio è entrata e uscita dalla Camera con l’impianto indenne. Fatemi dire che è una bella legge che fa un uso oculato ed efficiente delle risorse che sono poche, concentrandole su crescita e coesione sociale.
A proposito di pedanteria, quanto le scoccia non avere centrato nel 2016 l’obiettivo di riduzione del debito pubblico?
Mi scoccia. Non dipende dalla nostra politica economica. La crescita reale è in linea con quella attesa. Le variabili che incidono negativamente sono l’inflazione, il cui andamento non dipende da questo governo, e il fatto che a causa di condizioni di mercato non favorevoli abbiamo rinviato la seconda tranche di Poste. Nonostante questo, il debito che dal 2009 è schizzato verso l’alto quest’anno si stabilizza, al di là degli 'zerovirgola'.
Dato che si preoccupa soprattutto delle ricadute della riforma per le generazioni future, i miliardi destinati in questi anni a bonus di vario genere non sono anche un’occasione a suo modo sciupata per alleviare il peso del debito su queste generazioni?
Il bonus più oneroso e conosciuto è in realtà un taglio del cuneo fiscale attraverso una riduzione dell’Irpef pari a 80 euro al mese per tutti i lavoratori con retribuzioni basse. È uno stimolo alla domanda interna, anche per supplire a una domanda globale che si muove lentamente. Una telefonata interrompe la conversazione, che riprende su toni più 'leggeri'. 'Dove seguirò i risultati? A casa mia, domenica ho anche un altro 'impegno' a cui tengo (il derby Lazio-Roma di calcio, ndr)... Lunedì mattina presto, poi, andrò a Bruxelles per l’Eurogruppo: ma lì il referendum sarà argomento solo nei corridoi'. Chiediamo al ministro anche se ha avuto modo di parlare della riforma con Massimo D’Alema, che frequentava ai tempi della fondazione Italianieuropei: 'È da qualche mese che non sento Massimo D’Alema...'. È ora di ripartire con le domande.
In vista del 'giudizio' di domenica, è soddisfatto del lavoro fatto finora dal governo?
Lo sono particolarmente quando vedo che sono stati percepiti dei cambiamenti nel Paese. Mi spiace vedere in alcuni casi valutazioni superficiali sul lavoro del governo. Le riforme sono tremendamente faticose: non solo da disegnare e da approvare, ma ancor più da far funzionare.
Fra i costi indiretti di un No ci sono anche possibili conseguenze per le banche italiane? Su Mps si parla di un 'piano B'...
Sono molto chiaro sul punto. Innanzitutto non c’è un problema sistemico. Ci sono i famosi 8 casi singoli, quelli citati dal Financial Times, molto diversi tra loro. Per ciascuno dei quali sono stati già messi in atto piani di aggiustamento legati al mercato. Per me sono tutti 'piani A' e quelli funzioneranno. Gli osservatori finanziari pensano che un’eventuale vittoria del No sia già stata scontata dai mercati, il Sì non potrebbe che generare un miglioramento. Se ci sarà uno scenario diverso, valuteremo se sarà necessario un qualche intervento.
Le ripetute dichiarazioni giunte dall’estero nei giorni scorsi l’hanno infastidita?
C’è una parte dei media che ha interesse a gettare benzina sul fuoco. Solo lì ho visto accenni al rischio ipotetico di un’Italia 'commissariata', ma non c’è alcuna evidenza di problemi imminenti. I mercati finanziari detestano sempre l’incertezza e, in sua presenza, si affidano al brevissimo termine facendosi guidare da meccanismi spesso caotici. In questi mesi le banche d’affari si sono esercitate a produrre analisi sul dopo-voto. A volte divertenti, a volte noiose. Si è prodotta così una sindrome che lascia il tempo che trova, perché il sistema italiano resta fondamentalmente sano.
È sicuro, insomma, che il cambio al vertice di Mps darà risultati positivi?
Il management ha messo in campo un business plan che è premessa del rilancio. Il Monte ha un problema di Npl, tolti dal bilancio grazie all’intervento del fondo Atlante. Con l’aumento di capitale tornerà una banca dinamica e competitiva.
A proposito di Atlante: il presidente dell’Acri, Guzzetti, lamenta che le risorse raccolte sono limitate. Ha ragione a sottolineare che servono ulteriori supporti. Lo invito a sollecitare nuovi contributi dalle banche private perché si tratta di uno strumento di stabilità, un bene comune per il settore creditizio. Lo Stato ha fatto quello che poteva fare, non esistono bacchette magiche.
Capitolo Europa. L’Italia ultimamente fa fuoco e fiamme chiedendo una maggiore svolta pro-crescita. Perché si fa così fatica a far decollare questa Unione?
Non è mai facile mettere d’accordo 19 o 28 Paesi su regole comuni che, viste da differenti prospettive, sono più o meno desiderabili. Germania e Olanda hanno un surplus di partite correnti, crescono e dicono di non avere bisogno di politiche espansive. Loro pensano che, se c’è austerità, c’è anche stabilità, quindi sale la fiducia e i privati fanno investimenti generando più crescita. Ma se bisogna fare politiche molto restrittive, questo meccanismo s’inceppa. Come è successo.
E quindi? L’Europa fa passi avanti solo se si superano le visioni nazionali per arrivare a una visione comune. Anche qui è un’operazione di convincimento. Per creare un’integrazione che abbia come finalità la generazione di crescita e lavoro bisogna passare a una maggior fiducia reciproca fra i governanti. Io vorrei evitare un 2017 basato in Europa sul 'vivacchiare', a causa delle numerose elezioni. La bussola deve essere sempre quella di chiederci se i cittadini sono contenti o no di questa Europa.
Un’ultima domanda: nel 2017 scadono anche i mandati del governatore di Bankitalia, Visco, e del presidente della Consob,Vegas. Si sente di dire qualcosa al riguardo?
No, grazie. È l’unico no che dico oggi.
Intervista al ministro dell'Economia: la gente ha capito, vincerà il Sì. Nessun timore per mercati e spread. Bocciando le riforme si affossano le speranze dei giovani.
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