Eugenia Bornia
Eugenio Borgna, a luglio 90 anni, psichiatra di fama e saggista, osserva la realtà con sensibilità profonda.
Professore, lei che ha visto e studiato tanto, e curato tanti malati, cos’ha pensato vedendo l’immagine dei camion dell’Esercito carichi di bare che uscivano da Bergamo?
«In quell’immagine – risponde il professore – si percepisce la tutta tragedia in atto, la vita di tanti che se ne vanno in un totale isolamento di affetti. Una morte spersonalizzata, che perde la sua individualità e diventa numero, massa».
Un’immagine che fa pensare ai caduti di una guerra, profondamente angosciante. Come riuscire a sostenerla?
È doveroso e necessario guardare e sapere, ma occorre anche sottrarsi a una sovraesposizione mediatica che ci trascini nell’angoscia. Giusto seguire un telegiornale, ma ascoltare tutto il giorno sul web o sui social bollettini di guerra ci fa male. Non bisogna lasciarsi sommergere dal dolore, pure essendone partecipi, ma invece dobbiamo fare ciò che occorre fare: pensare alla casa, ai figli, al lavoro. Vivere, reagire: e con ciò dare anche una speranza di riscatto alla sofferenza di tanti sconosciuti.
Il Covid-19 in Italia è esploso con una violenza che ci lascia costernati. Sessant’anni fa, fra il ’57 e il ’58, l’influenza Asiatica fece 30mila morti nel Paese, e oltre 1 milione nel mondo. Tuttavia, e questo meraviglia, i giornali dell’epoca ne riferivano nelle pagine interne, con titoli sobri: 28 milioni di italiani furono contagiati. Morirono soprattutto malati cronici e anziani. Scuole e fabbriche rimasero aperte. Lei, che nel ’58 era già psichiatra all’Istituto Neurologico del Policlinico di Milano, che ricordo ha dell’Asiatica?
Veramente non posso dire di essere stato testimone di un momento particolarmente drammatico. Eppure lavoravo a contatto diretto con i pazienti, in ospedale. Ma in un clima normale, i mezzi andavano, scuole e uffici erano aperti. Molti si ammalavano, quasi tutti guarivano, e si sapeva di qualcuno che di quella brutta influenza moriva.
Occorre, certo, considerare la brutalità e la rapidità del manifestarsi del Covid-19. Eppure i 30mila morti dell’Asiatica ci furono. Come si spiega una reazione così diversa, allora?
Le ragioni possono essere diverse. Prima di tutto a quei tempi, nelle province e nelle campagne, ancora si moriva in casa. Al capezzale del malato veniva un medico che faceva ciò che poteva, ma non si portava un anziano molto grave all’ospedale. I vecchi volevano morire nel proprio letto, con i familiari accanto. Non c’era la ospedalizzazione che c’è oggi, e forse per questo, ipotizzo, la mortalità dell’Asiatica fu meno percepita. Inoltre gli adulti del 1957 erano reduci dal fronte, o almeno dai bombardamenti e dalla fame: avevano 'frequentato' la morte, l’avevano messa già in conto, e un’influenza seppure molto aggressiva sembrava loro poco, in confronto a ciò che avevano passato.
Nel ’57 la tv era agli albori, i quotidiani erano letti da un’élite, d’altro c’era solo la radio. Quanto incide la pervasività mediatica, oggi, nella percezione dell’epidemia?
I media sono uno straordinario volano che informa, ma, anche, dilata – e andrebbero dunque gestiti da chi ci lavora con razionalità e freddezza. L’eco mediatica crea enormi risonanze psicologiche, che in alcuni generano angosce incontrollabili. E questa angoscia, poiché noi siamo corpo e anima, può abbassare le difese immunitarie e renderci anche fisicamente più vulnerabili.
Eugenio Borgna (Borgomanero, 1930) è uno psichiatra. Laureatosi in Medicina e chirurgia nel 1954 presso l’Università di Torino e specializzatosi in Malattie nervose e mentali nel 1957, già libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano e direttore dell’ospedale psichiatrico di Novara, attualmente ne è primario emerito. Avverso a ogni forma di schematismo e riduzionismo biologico dei processi mentali, è strenuo sostenitore di una “psichiatria dell’interiorità” in grado di ricostruire la dimensione profonda e soggettiva del disagio psichico.
Gli italiani di oggi non conoscono guerra e carestie. Siamo vaccinati, gratuite le cure mediche, veniamo da decenni di 'diritto alla salute', e anche da una cultura che seleziona, fra i nascituri, i sani. L’aspettativa di vita in Italia è fra le più alte al mondo. Ci siamo abituati a pensare che la nostra vita è garantita?
Sì, e su questa forma mentis è precipitato di colpo un virus fortemente contagioso, talvolta mortale. Un nemico invisibile, oscuro, simile a quello rappresentato da Kafka nei suoi libri. L’irruzione della morte nel nostro orizzonte è uno shock violento. E non la morte che conosciamo – ci si può ammalare gravemente ma anche essere operati, curati, guadagnare anni di vita –. Ci si para oggi invece di fronte la morte improvvisa, qualcosa che ci trova disarmati.
Non però negli ospedali, dove medici e infermieri stanno dando il massimo.
Medici e infermieri sono una categoria a parte: sono abituati a confrontarsi ogni giorno con la morte, e hanno gli strumenti per combatterla. Inoltre sono uomini e donne che hanno scelto di lavorare per il prossimo, di aiutarlo, e l’epidemia per loro è sfida, come una chiamata alle armi, e un ritorno all’origine della vocazione giovanile.
Invece nelle nostre strade sempre più vuote non si percepisce almeno il germe di qualcosa di diverso? Qualcuno traversa la strada se ti vede avvicinarti, chi fa volontariato negli ospedali è magari evitato dai vicini. Sì, intravedo anche io qualcosa di sgradevole, che va al di là delle doverose e necessarie precauzioni contro il contagio. Chi evita il prossimo come avesse la peste mostra il principio di una diserzione umana che rende ciechi e sordi. Nel sentirsi minacciati nasce l’aggressività, perché si comincia a vedere nell’altro un nemico mortale. Sono dinamiche che occorre almeno conoscere, per esserne consapevoli, e controllarle.
Professore, lei crede che quando questa epidemia finirà ci troverà un po’ cambiati, rispetto alla distrazione, alla superficialità in cui vivevamo in molti, appena un mese fa?
Non so. Facilmente, cessato il pericolo, negli uomini subentra l’oblio. Ci sarà però qualcuno, non so quanti, che in questo tempo di dolore avrà colto l’occasione per stare più attento, per ascoltare se stesso e l’altro più profondamente. Sì, alcuni di noi, dopo questa aspra prova, rinasceranno: capaci di una nuova speranza.