Erano due amici al bar e volevano cambiare il mondo, ma la Torino-Lione ha cambiato loro, Sandro Plano e Antonio Ferrentino. Nella storia dell’ex sindaco di Susa, oggi leader dei No Tav, e dell’ex presidente della comunità montana, che difende invece l’Osservatorio governativo, si rispecchia quella del movimento che fa la guerra al treno superveloce. Il popolo No Tav, come lo si chiama da vent’anni mescolando statistiche demografiche, memorie resistenziali e folclore occitano, sta cambiando. Quando, domani pomeriggio, scenderà in piazza a Susa contro i sondaggi geognostici si capirà se l’attività dell’Osservatorio messo in campo dal governo nel 2005 dopo gli scontri di Venaus abbia realmente sgonfiato la protesta. Dalla seconda metà degli anni Novanta la gestivano loro, Sandro il bianco e Antonio il rosso. Stessa valle, stessi amici e stesso bar: le riunioni più animate si concludevano immancabilmente al circolo Arci 'Felce e mirtillo' di San Giorio, davanti a una buona barbera. In quegli anni, Sandro Plano era il volto moderato dei No Tav. Democristiano da quando portava i calzoni corti, l’ex sindaco di Susa veniva dal gruppo di Botta, punto di riferimento per i lavori pubblici; commercianti e professionisti lo sapevano e votavano in massa il candidato del centrosinistra (73% nel 2004) e lui, in testa ai cortei No Tav con la sua fascia tricolore, era una garanzia per vetrine e parabrezza. No Tav, beninteso, Plano lo è sempre stato. Chi dice per convinzione, chi per calcolo, forse per entrambe le cose. Un po’ come Luciano Frigieri, il presidente della Comunità montana della Bassa Valle, anche lui dc di lungo corso, il quale all’inizio degli anni Novanta dichiarò guerra alle segreterie torinesi che avevano deciso di far passare il progetto sulle teste dei comuni valsusini. Alla fine di quel periodo, arriva Antonio Ferrentino, tessera comunista dal ’75. Riesce a gestire l’insurrezione a colpi di proclami guevaristi - secondi solo all’icastico 'Sarà dura' del capopopolo Alberto Perino - e interminabili assemblee popolari che conduce da solo o circondato dagli altri sindaci della valle. Sono gli anni di Mompantero, Seghino, Rocciamelone, Venaus, insomma dell’epos valsusino. Trenta, cinquantamila persone in marcia. E migliaia di militari in valle. Grande teatro mediatico, grande fallimento politico per il centrodestra. Per tutti, antagonisti compresi, Antonio il rosso è leader carismatico, Sandro il bianco leader istituzionale. Il primo determinato a imporre al governo le vecchie regole del gioco democratico secondo cui chi governa non decide; il secondo più felpato, più accorto nei toni, come si conviene a chi amministra il comune che dalla realizzazione del tunnel avrà i maggiori vantaggi. Il gioco delle compensazioni è vecchio quanto le grandi opere. In valle di Susa l’aveva già gestito negli anni Novanta l’architetto Mario Virano, amministratore delegato della Austrostrada Torino- Bardonecchia. Virano è il deus ex machina chiamato da Palazzo Chigi dopo gli scontri di Venaus, un ex comunista colto e che veste alla liberale: il feeling con Gianni Letta è immediato, la linea dura archiviata e spariscono anche le obiezioni degli amministratori di centrodestra, tagliati fuori dal dibattito pubblico. La partita si gioca altrove. Non ci sta solo la Lega, che cercherà di sparigliare: ieri Umberto Bossi ha ipotizzato ad esempio che la Tav non serva veramente al Piemonte. Reazioni a catena del centrosinistra, che gestisce anche la marcia Sì Tav in programma per domenica al Lingotto di Torino. Dietro la convergenza tra PdL e Pd ci sono anche gli interessi dei grandi gruppi edili e della logistica per la road map della Torino-Lione. Si sa quanto sia stata decisiva, del resto, l’Unione industriali di Torino nel convincere Rfi a modificare il primo tracciato della Tav, che tagliava fuori il polo logistico di Orbassano. A riscrivere il progetto ci hanno pensato nel 1995, in Provincia, un ingegnere democristiano, Franco Campia, dall’inossidabile curriculum moderato, e un’economista di formazione liberale passata ai ds: Mercedes Bresso. Oggi il governatore del Piemonte è il vero vincitore politico della ripartenza dei lavori alla Tav. Non può darlo troppo a vedere e deve lasciare al sindaco di Torino, Chiamparino, il ruolo di ariete politico, perchè per battere il leghista Cota alle regionali di primavera servono anche i voti No Tav. Non a caso, il Pd piemontese, dopo aver minacciato il diluvio contro Plano e gli amministratori democratici schierati con le liste civiche del No, si è limitato all’ennesimo deferimento ai probiviri del partito. Sandro il bianco sa che non succederà nulla e promette: «Certo che voterò la Bresso». L’operazione che ha riscritto la storia del movimento è scattata alla fine del 2009. Antonio il rosso era già stato eletto in Provincia, sotto le insegne di Sinistra e Libertà e Sandro il bianco non poteva ricandidarsi a Susa: così, si è fatto eleggere presidente della nuova comunità montana e a sostenerlo ha chiamato, contro il parere del Pd, anche i 'vecchi amici' No Tav, guidati da Luigi Casel da Bussoleno. Con un patto chiaro: fermare l’Osservatorio. Fulmini del Pd torinese e regionale. Sandro il bianco, però, ha tenuto fede all’accordo, mettendosi di traverso al momento della nomina dei tecnici. Solo Antonio il rosso non l’ha seguito e l’antico fronte si è spezzato. Per la gioia del pro Tav Osvaldo Napoli (PdL), che, guarda caso, è vice di Chiamparino nell’Anci. «In questi anni la Tav è stata usata per riscrivere gli equilibri della politica e soprattutto del centrosinistra» ammette Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese. Che precisa: «più dell’alta velocità, dovrebbe preoccuparci la crisi della Fiat».