L’arcivescovo Salvatore Pappalardo
Siracusa «Come cristiani non possiamo accettare e giustificare alcuna forma di discriminazione. Abbiamo bisogno di sentimenti di reciproca fiducia e amicizia, ponendo gesti concreti di solidarietà ». Salvatore Pappalardo è tra i pochi a non rimanere sorpreso dalla reazione di Siracusa, una città e una comunità che non sono scesi in piazza solo con striscioni e bandiere, ma che da giorni si mobilitano offrendo accoglienza, progetti d’integrazione e perfino un lavoro ai migranti della Sea Watch. «È quello che facciamo da anni, senza distinzione tra italiani e stranieri», dice l’arcivescovo. Appena dopo l’ingresso della nave nella baia della città che fu di Archimede e dove si venera Santa Lucia, Pappalardo chiamò il prefetto per offrire un rifugio e un abbraccio ai naufraghi scampati ai lager libici. Ieri sera, in cattedrale, ha guidato la veglia per i migranti.
Non sappiamo ancora cosa ne sarà esattamente dei migranti della Sea Watch, quanti resteranno in Italia, dove verranno condotti i minori, né che cosa accadrà all’organizzazione che li ha salvati. Che insegnamento si può trarre da questa vicenda?
Credo che ancora una volta sia emersa la necessità di affrontare le migrazioni con politiche che governino i flussi. Non è chiudendo le porte o voltandosi dall’altra parte che i problemi si risolvono. E non è neanche scaricando le tensioni su singole categorie di persone che si affrontano le difficoltà che pure non nascondiamo. Il nostro Paese sta attraversando una lunga crisi economica che ha stremato tante famiglie, cui si aggiunge il fenomeno dell’immigrazione con il problema dell’accoglienza e dell’integrazione. Non entro nel merito dei provvedimenti adottati dai governi di turno, certamente però è mio dovere, come vescovo, annunciare a tutti la parola del Vangelo che ci obbliga nel ve- dere nel volto del forestiero il volto di Cristo che bussa alla nostra porta.
Lo scorso 13 dicembre, nel giorno in cui si festeggia la patrona Lucia, in città molti avevano espresso sdegno per la crudele uccisione di un gattino. E lei cosa disse?Dissi che è inaccettabile che mentre manifestiamo anche la giusta indignazione per il gatto morto sulla strada, non si esprima uguale indignazione per l’abbandono di donne, bambini e uomini colpevoli solo di essere nati nella miseria o in Paesi dove da anni si combattono assurde guerre, solo perchè hanno la pelle di un colore diverso.
Si aspettava di vedere così tante persone, di provenienza religiosa, culturale, politica alle volte diversa e distante, coalizzarsi per gridare nel dialetto siciliano: 'Scendeteli'?
In questi anni abbiamo lavorato molto nella formazione delle coscienze, incentivando i fedeli a non accontentarsi di risposte prestampate, perché la coscienza non restasse anestetizzata. E lo abbiamo fatto offrendo anche occasioni di riscatto. Nove anni fa cominciammo con un dormitorio invernale dopo che un clochard italiano era morto di freddo nei pressi della stazione. Doveva essere una iniziativa di qualche settimana. Invece va avanti ininterrottamente da allora grazie al volontariato e al contributo di tanti. Così come altri luoghi, penso al Centro Mater Dei, nei quali ci si prende cura indistintamente di stranieri e italiani indigenti, comprese numerose famiglie.
All’avvio di ogni progetto di accoglienza e integrazione in tutta la diocesi, avete incontrato resistenze e ostilità?
I tentativi di creare divisione e diffidenza non sono mancati e non di rado avevano un’origine e un interesse politico. Ma noi abbiamo fatto in modo che le persone potessero incontrarsi, conoscersi, dialogare e collaborare e questo disinnesca chi vuole prosperare sulla divisione e la contrapposizione.