venerdì 13 maggio 2011
«In Italia il Parlamento non è condannato nè destinato a sparire nè a un esercizio povero e meschino delle sue facoltà»: lo ha detto a Firenze il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rispondendo alla domanda di uno studente. «Sento con me i cittadini di tutte le idee politiche e di tutte le condizioni sociali. Faccio ciò che posso secondo la Costituzione».
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Le parti si invertono a Firenze. Tocca al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, classe 1925 (ben portata) parlare contro la «retorica del pessimismo» con gli studenti che lo incalzano con le loro domande, assai preoccupate sul futuro del Paese. «Faccio come posso quel che mi detta la Costituzione e mi chiede la gente di ogni colore politico. Sento la responsabilità della fiducia tributata dagli italiani di ogni parte del Paese e di tutte le condizioni sociali», dice sopraffatto dagli applausi nel Salone dei 500.È l’abbraccio della seconda Capitale d’Italia. «Pre-si-den-te-pre-si-den-te», è il coro ritmato di cittadini e turisti che lo accolgono in Piazza della Signoria all’ingresso in Palazzo Vecchio. In prima fila Rosy Bindi, Vannino Chiti, dall’altro lato l’arcivescovo Giuseppe Betori che definisce Napolitano «una gran persona che mi onora della sua amicizia».Il Gonfalone col Giglio, l’inno di Firenze suonato con le chiarine dai Trombettieri della Signoria, e poi l’inno di Mameli intonato da due fisarmoniche e cantato davvero da tutti. Matteo Renzi fa gli onori di casa, con Carla Fracci - diva del palcoscenico tradita dall’emozione nelle vesti di assessore provinciale alla Cultura - e il presidente della Regione Enrico Rossi. Renzi ringrazia Napolitano, «a nome della città dei Guelfi e dei Ghibellini» per il lavoro tenace a rappresentare l’unità.«Apparteniamo a qualcosa di più grande della fazione di ciascuno di noi», dice il presidente rispondendo agli studenti della facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" e di Giurisprudenza. È il cuore della due-giorni fiorentina. Un fuoco di fila, per più di un’ora, in cui difende il ruolo del Parlamento, che non può essere «meschino». Condizione comune anche ad altri Paesi, tanto che la demotivazione fu una delle ragioni, ricorda, accampata anche nello scandalo che «qualche tempo fa fece molto clamore in Gran Bretagna», quando «alcuni parlamentari che avevano abusato dei loro privilegi furono scoperti», allorché «seguirono le loro dimissioni, mentre da noi - ricorda - quel clamore sembrò eccessivo, perché abbiamo una scala di giudizio un po’ diversa», ironizza, suscitando stavolta brusio in sala.Stefania, di Giurisprudenza, gli chiede delle autonomie. Lui parla del «dovere inderogabile della solidarietà» accanto al «valore della responsabilità nella gestione delle risorse pubbliche», e qui gli applausi partono proprio dalla pattuglia leghista locale capeggiata da Marco Cordone, capogruppo in Provincia. Ma, avverte il presidente, non basta il federalismo fiscale. Va ripreso il progetto «troppo presto abbandonato» del nuovo bicameralismo. Gli Stati federali debbono avere una Camera di composizione degli interessi locali, una Camera dei Comuni o un Senato Federale, perché «il debito pubblico è di tutti gli italiani, non di Roma».Il ruolo delle donne? «Se vincono in così tante i concorsi vorrà pur dire qualcosa». Cita i primi segnali ai vertici della magistratura, ma sulla rappresentanza parlamentare il dato «fa cadere le braccia». Sulla Libia, c’entra il passato coloniale? «Non potevamo agire diversamente», difende la scelta di intervenire. «Non siamo in guerra, però», ripete. Ma non si nasconde ora come, accanto a tante speranze, si nasconda anche «un futuro anche pieno di incognite, e occorrerà vigilare, nella Nato».
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