A 22 anni dall'Egitto per morire sotto un macchinario. E noi, distratti
giovedì 22 agosto 2024

Uno yacht di miliardari che assurdamente affonda nel gorgo di una tempesta a un miglio da terra, come un piccolo Titanic, certo impressiona. Sul web non si parla quasi che dell’incredibile sciagura del Bayesian. Per arrivare ai cento droni mandati da Kiev su Mosca tre notti fa, bisogna scorrere dieci titoli. Dopo lo pseudo doping di Sinner trovi, infine, i droni ucraini nel cielo di Mosca: la capitale russa mai finora così direttamente attaccata - il che dovrebbe preoccuparci. Invece, boccaporti, derive, sartie, la tragedia dei disgraziati ricchi ci appassiona con quel suo sapore di fato avverso, imprevisto e ineludibile.

Intanto, forse quindicesimo titolo, un ragazzo di 22 anni è morto mercoledì pomeriggio a Monza, in uno stabilimento che tratta i rifiuti. Un ragazzo egiziano, in regola col permesso di soggiorno, in regola, pare, con tutto. Era addetto al nastro trasportatore sul quale i rifiuti vanno al compattamento. È rimasto impigliato nell’ingranaggio, e trascinato nel tunnel. I vigili del fuoco hanno impiegato ore per liberarne il corpo. Una fine orrenda che ricorda quella della giovane mamma di Prato, Luana, risucchiata tre anni fa da un telaio. Ma lei era italiana, e se ne parlò di più.

22 anni. Ha fatto la fine di un rifiuto. Penso a sua madre, a suo padre: oltre alla morte, sapere che è morto in quel modo. Senza che nemmeno la cosa, tra tante morti sul lavoro, abbia destato scandalo. Un tg ha dato la notizia, l’altra sera, non precisando bene il particolare del nastro compattatore: come fosse quel modo di morire, per l’Italia all’ora di cena, qualcosa di intollerabile.

In effetti, lo è. Nello sterminato hinterland di capannoni e mobilifici che quasi senza soluzione di continuità congiunge Milano alla Brianza, un ragazzo arrivato dall’Egitto aveva ottenuto il permesso di soggiorno, e un lavoro regolare. Un lavoro umile, che non tanti italiani accetterebbero. Ma era un impego regolare, e forse, a casa, i suoi ne erano fieri. Un lavoro, in Italia: per la moltitudine di poveri che preme alle frontiere dell’Europa, un sogno.

Un sogno straziato. Certo ci si può chiedere come non esista una imbragatura di sicurezza a quei nastri, o un blocco automatico, o che cosa non abbia funzionato. Si può sperare che, magari, una tragedia simile induca a introdurre una maggiore sicurezza in quegli impianti. Resta però il modo della morte di quel ragazzo toglie il fiato. E, onestamente, è un modo tanto crudele, che ci si può chiedere dove guardava Dio, in quel momento. Fosse accaduto a nostro figlio, non ci ribelleremmo?

Ma, certo, lo sappiamo, Dio ha altri pensieri e altre vie delle nostre, vie insondabili. Il che non ci impedisce, essendo uomini, di vedere una ingiustizia, e di provare rabbia. (E forse è meglio litigare con Dio, che restare indifferenti).

Sostanzialmente indifferente invece sembrano i media, presi sempre nell’inseguimento dell’audience. Questo sistema, con i giornali tradizionali, esisteva certo, ma in misura molto minore. Ho davanti una prima pagina del Corriere del maggio 1947. L’apertura a nove colonne sulla reazione della Costituente alla strage di Portella della Ginestra, in Sicilia. In un titoletto basso, quasi invisibile, la vicenda di una tabaccaia assassinata e chiusa in un baule trovato nella Laguna di Venezia. Oggi, su una storia così si farebbero pagine. Perché desta una curiosità morbosa, perché si legge.

Questo leggere sempre più solo ciò che ci va di leggere, e ignorare il resto - incombente come le guerre in Ucraina e in Medio Oriente, o silenzioso come la fine atroce di uno straniero, ci trasforma, e non in meglio. Ascoltiamo ciò che vogliamo ascoltare, ciò che sa di thriller - ciò che, in fondo, ci distoglie da noi. Sembra che siamo maledettamente distratti. Le centinaia di migliaia di morti fra la Russia e l’Ucraina e Gaza e Israele, avevano l’età dei nostri figli.

Come quel giovane egiziano, 22 anni, fiero, probabilmente, di dire ai suoi: ho un lavoro, a Milano. Così lontani stiamo diventando, da una forma mentis di padri e di madri. Forse perché padri e madri lo siamo sempre in minor numero? E non riconosciamo più i figli degli altri, quelli che muoiono in silenzio.

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