Il giurista Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, segue da Venezia, dove è impegnato in un convegno di studi, la relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2008, presentata dal presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone. Non entra in tutte le vicende richiamate dall’alto magistrato, ma non condivide i toni entusiastici sulla affermazione dei diritti fondamentali della persona ad opera di alcune sentenze della stessa Corte, tra le quali la n. 27145, quella sul caso Eluana. «Non entro nel merito della relazione – dice infatti il professore Mirabelli – perché non ero presente, ma discuto l’indirizzo giurisprudenziale che il presidente Carbone ha richiamato».
Professore, lei ha giù espresso riserve su queste sentenze. Basate su quali motivi? A mio modo di vedere questo indirizzo giurisprudenziale non rafforza i diritti fondamentali della persona, anzi li pone a rischio perché si muove su una linea di consenso presunto, dedotto addirittura da uno stile di vita dal quale è difficile desumere delle conseguenze così gravi. Questa linea giuriprudenziale, oltretutto, non tiene conto del principio del consenso informato che è un presupposto a garanzia del diritto della persona. Sotto questo aspetto contraddice anche lo stesso indirizzo giurisprudenziale che viene ricordato e che riguarda il non consenso per la trasfusione di sangue. La Cassazione, infatti, affermò che anche quando vi è uno scritto (nel caso specifico era «niente sangue »), si procedesse ugualmente alla trasfusione, perché questo dissenso precede e non segue l’informazione che riguarda l’attualità della situazione. Anche in quel caso si disse che la volontà della persona o la volontà dichiarata è superata perché è una volontà che non si basa sul consenso informato. Tutto questo contraddice la giurisprudenza che si riferisce alla sentenza sull’alimentazione assistita.
Il presidente Carbone, però, richiama con compiacimento questa giurisprudenza perché avrebbe consolidato certi diritti della persona. Ripeto: non voglio esprimere valutazioni positive o critiche all’impostazione del presidente Carbone, che rispetto come enunciazione autorevole, ma essendo riferita a indirizzi giurisprudenziali della Corte, ritengo siano criticabili proprio questi indirizzi.
Per quale motivo? Perché offrono un elemento di minore protezione e non di affermazione dei diritti fondamentali della persona, che quella sentenza determina, sia in rapporto al consenso presunto sia in assenza di un consenso informato che, invece, viene ritenuto il cardine dell’autodeterminazione della persona. Tanto che quando queste determinazioni sono espresse con la richiesta di non procedere alla trasfusione di sangue, la stessa Cassazione dice di no e, anzi, stabilisce che si proceda a trasfusione in caso di pericolo di vita, perché quel consenso precede e non segue l’informazione.
Il presidente della Cassazione dice invece che la giurisprudenza recente della Corte legittima il diritto delle persone alla autodeterminazione, quasi come se fosse senza condizione. Qui si introduce un altro problema: entro quali limiti quella volontà della persona vale. Certamente, rispetto a trattamenti sani- tari obbligatori, la scelta della persona vale. Ma con altrettanta sicurezza non c’è il diritto di morire. L’ordinamento non lo prevede. C’è il diritto di rifiutare trattamenti sanitari imposti. Va poi stabilito se l’alimentazione sia o meno un trattamento sanitario. Il nodo giuridico reale però è l’indebolimento forte dei diritti della persona, perché il consenso è presunto, mentre deve essere esplicito e formalizzato per le questioni più importanti che attengono alla vita. Qui abbiamo una presunzione astratta anticipata e non raccordata allo stato esistente.
La giurisprudenza richiamata da Carbone dice che se esistono i requisiti della consapevo-lezza, dell’informazione e dell’autoresponsabilità, la libera esplicazione di questi diritti non è sottoposta a nessun altro interesse... Certamente è preminente l’interesse della persona, ma proprio in situazione di tanta delicatezza va garantita l’elemento del consenso senza essere affidato alle valutazioni di un terzo, in questo caso il tutore o altri soggetti. L’autodeterminazione, per essere tale, presuppone il consenso informato che richiede l’attualità e, quindi, un rapporto dialogico tra medico e paziente. Si dice che per le persone incapaci questo non è possibile. Ma ci possono essere altri che si sostituiscono alla loro volontà? Direi proprio di no. La legge deve disciplinare anche questo ambito in coerenza con i principi e con le garanzie che sono necessarie per la tutela dei più deboli. Questo è un settore nel quale non opera adeguatamente un diritto giurisprudenziale. Quando il legislatore tace, la giurisprudenza interviene sui diritti fondamentali, ma offre solo rimedi inadeguati. Occorre una soluzione normativa.