MILANO. Gsp, azienda "galeotta" dal 2008. «Più difficile far quadrare i conti»Duecentomila fogli di carta vengono digitalizzati ogni giorno all’interno dei laboratori di “Global service provider”, azienda milanese che dal 2008 opera all’interno del carcere di Opera. E che ha scommesso con coraggio sulle potenzialità del lavoro penitenziario. «Il 90% dei nostri dipendenti è detenuto», spiega Roberto Brocato, socio dell’azienda.Ma nella sua voce c’è un pizzico di amarezza. Ha la consapevolezza «di fare qualcosa di positivo: se aumenta il numero di detenuti che lavorano, diminuiscono i costi per la collettività e si abbassa la recidiva». Ma con l’esaurirsi dei fondi previsti dalla Legge Smuraglia, far quadrare i conti è diventato più difficile. L’azienda, infatti, ha dovuto ridurre il numero di detenuti impiegati, pur mantenendo lo stesso monte orario complessivo. «Lo sgravio contributivo è stato confermato fino a dicembre – spiega Brocato –. Mentre potremo usufruire del credito d’imposta solo fino a luglio». Una situazione che fa variare notevolmente i costi e, di conseguenza, il prezzo finale dei servizi che vengono proposti ai clienti: «Solo il credito d’imposta incide di 2,50 - 3 euro sul costo orario del lavoro».Brocato ci tiene però a precisare che «gli sgravi previsti dalla legge non sono una sovvenzione. Ma uno strumento che ci permette di contenere le inevitabili diseconomie che si incontrano lavorando in un carcere». L’obiettivo, ora, è trovare soluzioni alternative: malgrado le incertezze, infatti, “Gsp” non vuole abbandonare i laboratori del carcere di Opera: «Come azienda, crediamo in questo progetto. Siamo convinti che il lavoro penitenziario sia un mix tra business e sociale che può funzionare molto bene – conclude Brocato –. Stiamo collaborando con il Provveditorato per trovare altre soluzioni».
LECCE. «Incentivi, uno strumento prezioso che compensa le diseconomie»«Noi non vogliamo carità, né beneficenza. Noi vogliamo stare sul mercato con i nostri prodotti». Luciana Delle Donne, pugliese con un passato da manager (più di vent’anni nel mondo bancario) dal 2007 ha portato creatività e fantasia all’interno degli istituti di pena pugliesi. La cooperativa “Officina creativa” ha avviato la produzione di borse, shopper e persino cover per iPad con il marchio “Made in carcere”. Prodotti confezionati a mano (con materiali e tessuti di scarto) da una ventina di donne detenute a Lecce e nel carcere di massima sicurezza di Trani.Luciana vuole che la cooperativa «cammini con le sue gambe». Ma ammette che è molto difficile stare sul mercato: «Le banche non fanno più credito, hanno chiuso i rubinetti. I clienti non pagano». Sulla sua scrivania c’è una fattura per una commessa da 25 euro: «Sto aspettando il saldo da gennaio – spiega –. Come se non bastasse ho dovuto pagarci sopra l’Iva». Ai disagi di tutte le altre piccole imprese, queste cooperative devono fare i conti con le difficoltà aggiuntive che comporta il fatto di lavorare in un carcere. I ritmi delle giornate sono scanditi dalle esigenze della sicurezza, dai colloqui delle detenute con familiari e avvocati, più che dalle reali esigenze produttive. «La capacità produttiva qui dentro è bassa. La Smuraglia è uno strumento prezioso che ci permette di compensare queste diseconomie», spiega Luciana. Complessivamente, la cooperativa leccese può contare su sgravi fiscali e contributivi per un totale di 5mila euro al mese. «Lavorare in carcere non è semplice, ma è un po’ come soffrire di mal d’Africa. Abbandonarlo è quasi impossibile – conclude Luciana –. Si pensa di poter cambiare un po’ il mondo. E così si va avanti, superando tutte le difficoltà».