«C’è poca attenzione sugli sbarchi di immigrati in Calabria. Sicuramente per una questione numerica, e poi perché non c’è l’aspetto umanitario. Gli arrivi dalla Libia sono spesso caratterizzati dai drammi degli affondamenti e quindi dalla solerzia di voler aiutare, che ha polarizzato l’attenzione, con le conseguenti polemiche». È la riflessione che fa il tenente colonnello Alberto Catone, comandante del Reparto operativo aeronavale della Guardia di Finanza di Vibo Valentia, gruppo protagonista di moltissimi interventi in mare su imbarcazioni provenienti da Turchia e Grecia, ma anche da Egitto e Libia, come per il recente salvataggio della “barca dei minori” e il blocco della “nave madre” che l’aveva trainata.
«Non ci sono mai stati casi eclatanti sui quali qualcuno poteva giocare con la coscienza dei soccorritori o dei mancati soccorritori o del sistema. Abbiamo avuto solo l’episodio della barca esplosa mentre la portavamo a Crotone, ma è una storia molto diversa». Loro, i “marinai” delle Fiamme gialle, certo non si risparmiano. Evitando tragedie. «La barchetta coi 35 minori probabilmente non aveva neanche il carburante per arrivare a riva e se non l’avesse vista nessuno, avrebbe avuto sicuramente qualche problema. Imbarcava acqua ed è affondata autonomamente. Per un barchino così piccolo non c’era la necessità di lasciare a bordo qualcuno dell’organizzazione. Dalle immagini che abbiamo visto sembra che abbiamo detto “quella è la direzione” ».
L’ufficiale conferma che «le modalità degli sbarchi in Calabria al 90% è con barche a vela e molto raramente yacht a motore. Partono dai porti turchi, qualche volta fanno scalo a Creta e poi proseguono, ma di solito arrivano direttamente». Gli scafisti «sono soprattutto dei Paesi ex sovietici, ma ultimamente abbiamo visto diminuire gli ucraini, tranne l’ultimo caso, una persona ricercata per traffico di droga. Aumentano, invece, rumeni e moldavi ». Il motivo è legato alle inchieste delle forze dell’ordine. «Siccome siamo riusciti in molti casi ad arrestare gli scafisti, può darsi che questo abbia creato un disincentivo per il reclutamento ». C’è un particolare impegno per individuare gli scafisti, ancor prima dello sbarco. «Quando arriviamo alle barche a vela, li filmiamo nel buio, da dietro, così non se ne accorgono. E quindi le testimonianze degli immigrati non sono indispensabili, perché sono colti in flagranza. Alcuni fanno più di un viaggio. Ma non abbiamo trovato riscontri di sodalizi organizzati sul territorio italiano. Spesso, soprattutto i giovani ucraini e russi, quando sbarcavano non avevano nessuno a terra, raggiungevano fortunosamente la prima stazione degli autobus o del treno, oppure, in inverno, si nascondevano nei villaggi turistici chiusi per far passare qualche giorno e poi cercavano di rientrare. Per questo cerchiamo di intercettarli prima che arrivino, perché a terra per loro diventa molto più facile dileguarsi».
Ora però qualcosa sta cambiando. «Sicuramente ci sono traffici che originano dall’Egitto. Il tratto di mare è molto più importante rispetto a quello che separa le coste libiche e tunisine da Lampedusa e quindi non può essere effettuato con imbarcazioni improvvisate, sperando di essere recuperati da qualche benintenzionato che in questa tratto di mare non c’è. C’è, invece, un notevole traffico mercantile quindi nel caso di chiamate d’allarme ci può essere la possibilità di essere soccorsi. Sicuramente dal Nordafrica veniva la “nave madre”, ma probabilmente anche il peschereccio con 232 immigrati che abbiamo salvato il 31 maggio, anche se a bordo erano per la maggior parte persone provenienti dall’est dei Mediterraneo».
Il tenente colonnello non esclude l’esistenza di appoggi a terra. «Non abbiamo trovato elementi su realtà criminali organizzate, ma spesso si creano dei punti di riferimento. Qualche mese fa la Polizia ha smantellato una rete all’interno del Cara di Isola di Capo Rizzuto». Spiega poi le modalità operative. «Noi siamo una forza di polizia e cerchiamo di avere sempre una situazione visiva di quello che accade, perché non ci possiamo permettere di rischiare la vita dei trasportati, però nel momento in cui sappiamo che l’unità apparentemente sta navigando senza problemi, e le condizioni del mare non sono difficili, riteniamo che possa andare avanti da sola. Questo con le barche a vela. Coi pescherecci no. Spesso quando sono ai limiti della zona contigua, cioè 30 miglia, arriva una chiamata da qualcuno di bordo o al 112 o al numero della Capitaneria dicendo che hanno un problema e hanno bisogno di aiuto». Ma c’è il trucco. «Abbiamo visto che dopo la chiamata, l’imbarcazione continua ad andare avanti, non sembra avere problemi, ma quando arriva il mezzo di soccorso improvvisamente si ferma e si scopre che hanno avuto un guasto ai motori. In un caso mentre stavamo scortando un peschereccio si è rotto il motore. Siamo convinti che l’abbiamo sfasciato perché erano convinti di essere respinti. E lo pensiamo anche per l’esplosione dell’estate scorsa a Crotone. Ma non abbiamo prove».