L'arrivo del feretro di Matteo Messina Denaro al cimitero di Castelvetrano. Dietro, il fratello con un mazzo di fiori e i parenti del boss - Reuters
A meno di nove mesi di distanza dal suo arresto, il 16 gennaio scorso in una clinica di Palermo dopo 30 anni di latitanza, Matteo Messina Denaro è tornato stamattina per il suo ultimo viaggio a Castelvetrano. Un paese diviso dopo la sua morte, di cui è stato per decenni il capomafia indiscusso. Uno “scettro” ereditato dal padre, “don Ciccio”, sepolto nella tomba di famiglia del cimitero, accanto al quale anche lui è stato tumulato. Quella stessa cappella, con la statua di un angelo in marmo a fare da guardia, che era stata imbottita di microspie dagli investigatori. Non ci sono stati, come annunciato, funerali pubblici. E non c'è stata la benedizione della salma, perché la Chiesa nega i funerali religiosi ai mafiosi: «In questo momento noi come Chiesa stiamo dalle parti delle vittime - ha ribadito il vescovo di Mazara del Vallo, monsignor Angelo Giurdanella -, stiamo dalla parte della giustizia, perché le persone che hanno subìto ogni forma di violenza atroce, fatta di morte, possano sentirsi accompagnati da processi urgenti che la società civile, forze dell'ordine, magistratura ma anche la comunità scolastica ed ecclesiastica deve avviare, per liberare questo territorio dalla cultura della sopraffazione, della prepotenza, della logica del più forte». A presenziare alla sepoltura una decina di parenti, tra cui il fratello Salvatore (che ha seguito il carro funebre a piedi, sul volto la mascherina, con un mazzo di fiori gialli in mano), le due sorelle Bice e Giovanna (vestite a lutto) la figlia Lorenza Alagna e la nipote Lorenza Guttadauro. Domenica prossima si svolgerà un sit-in aperto «a tutti i cittadini onesti» nella villa comunale intitolata a Falcone e Borsellino.
Il gran criminale e un Dio che perdona di Marina Corradi
«Se non avessi avuto il cancro, non mi avreste preso mai» aveva detto con un sorriso ironico agli uomini che finalmente, dopo una interminabile latitanza, un anno fa gli avevano messo le manette. Sfidante fino all’ultimo, e mai, almeno pubblicamente, pentito, le spalle cariche di condanne, e – indimenticabile - della morte di quel bambino sciolto nell’acido, per vendetta. E ora il funerale all’alba, per pochi intimi, e filmato, perfino, per ragioni investigative; e nemmeno concesso il rito religioso, fatto questo molto raro. Messina Denaro, boss mafioso, una vita passata a dare ordini efferati a una corte di sodali, potente occulto, ricchissimo, verrà tumulato in fretta, quasi clandestinamente.
Nessuno di noi può dirsi innocente, eppure la morte di un grande criminale non ci lascia in un certo turbamento? Di uno che al mondo, di tanto male fatto, non risulta avere chiesto perdono.
Il Dio in cui crediamo noi cristiani è infinitamente buono, e può perdonare ogni cosa: ma, e se non gli si chiede perdono? Non che la cosa ti riguardi, ti dici, ma punge il pensiero di quell’incontro che non sapremo mai; e fa male, il dubbio di un impossibile perdono.
Una figlia non riconosciuta, leggi, negli ultimi mesi è però rimasta accanto a Messina Denaro, e ha accettato di portarne il cognome. Dunque, fra quella figlia e quel padre un istante buono deve pure essere accaduto. Non sono fatti nostri, certo. Eppure in verità ti interpella il destino di un singolo sconosciuto uomo. «L’Inferno c’è, ma è vuoto» ha assicurato anni fa un famoso teologo, e in fondo siamo una generazione di cristiani cresciuta nell’idea di un Dio che, comunque, perdona.
E se non fosse così? Se invece il buio per sempre, l’annientamento nel male riguardasse anche uno solo, vorrebbe dire che quella porta c’è, che quella possibilità sussiste. La Dannazione: da quanto non sentiamo pronunciare questa espressione? Chi crede all’Inferno, nel Ventunesimo Secolo? Ascoltiamo Dante, osserviamo gli inferni dipinti da Hieronymus Bosch con distaccata meraviglia. Credenze medioevali, assurde nell’era dell’intelligenza artificiale.
Tuttavia quell’uomo cui addebitano tanti delitti, uno cui la Chiesa nega il funerale religioso, che ne sarà. Ti viene in mente allora un tuo nipote di pochi mesi, i suoi occhi, quello sguardo dei neonati, del tutto innocente e fiducioso. E sai che ogni bambino è così. Che anche quell’uomo morto ieri è stato, un giorno, così. Come è possibile, ti domandi, che Dio si sia dimenticato di quel bambino, di quei suoi occhi?
Non è possibile che Dio si dimentichi. Perfino le madri si ricordano gli occhi limpidi, un giorno, anche dei figli peggiori. No, Dio non può, ti dici, ora con certezza. E del resto può bastare una frazione di secondo, nell’ultimo respiro, un attimo, in una coscienza resa coriacea dall’abitudine al male. Una fessura da nulla, che Lo lasci passare. Forse che l’Innominato, pensi, era migliore di Messina Denaro?
Ma perché poi pensi tanto a uno sconosciuto criminale? Perché hai un’eco in te, la parola di un uomo che ha detto: «Io sono tutto in tutti». E allora a quella salvezza non deve mancare nessuno - nessuno naufrago, abbandonato in mare. Nessun remoto bambino dimenticato. Come se la salvezza di uno fosse quella di tutti.
Per quell’uomo che non hai mai visto, violento, temuto, odiato, è strano, ma ora ti verrebbe da pregare.
Tra libertà dell'uomo e potestà dell'Assoluto di Mimmo Muolo
Dove finisce l’infinita misericordia di Dio? No, non è un ossimoro, né una domanda scherzosa, del tipo “di che colore era il cavallo bianco di Napoleone”. È invece una questione serissima, che la morte di un uomo dalla vita efferata come Matteo Messina Denaro riporta all’attenzione delle nostre coscienze. In altri termini: c’è una speranza di salvezza eterna anche per chi si sia macchiato di grandi nefandezze?
Qualcuno in questi giorni ha fatto riferimento a un personaggio che è nell’immaginario collettivo. L’Innominato dei Promessi Sposi. Forse, però, se dobbiamo prendere spunto dall’ambito letterario, meglio sarebbe riferirsi a un altro grande romanzo, tratto dalla letteratura americana, e cioè La valle dell’Eden del Premio Nobel John Steinbeck.
Fortemente intessuto di spirito biblico, il grande affresco disegnato dallo scrittore statunitense mette i personaggi – chi più chi meno – di fronte alla grande scelta tra il bene e il male che Dio ha concesso a ogni uomo. C’è innanzitutto Cathy, pluriomicida (e anche parricida), madre degenere, prostituta, tenutaria di un bordello in cui si pratica il sadismo, alla fine suicida. Un’«anima deforme», come la definisce l’autore. E poi i due gemelli che partorisce, Aron e Caleb, che sono un po’ come Caino e Abele. E gli altri personaggi, i fratelli Adam e Charles, ad esempio, formalmente padre e zio dei gemelli (anche se Cathy è stata con entrambi e non si sa in fondo di chi sia la paternità), anch’essi diversi come il giorno e la notte. Su tutti loro aleggia la parola ebraica timshel, che significa “tu puoi” e che è la vera morale della favola.
Tu puoi. Ogni uomo può spezzare le catene del male, oppure scegliere di restarne imprigionato. Perché Dio ci ha creati liberi e rispetta fino in fondo la nostra libertà. Anche quando, come si legge in una nota parabola evangelica, il grano e la zizzania vengono lasciati crescere insieme fino al momento del raccolto. Fuor di metafora, il momento della morte corporale di ognuno di noi.
Ecco, dunque, dove finisce l’infinita misericordia di Dio. Anzi, sarebbe più corretto dire, dove si arresta. Perché è sì infinita, ma non incondizionata. Il suo limite estremo è la libertà dell’uomo, il “tu puoi” che consente a tutti, proprio a tutti, e in qualunque momento della vita, quali che siano le colpe, di sfuggire alla dannazione eterna, facendo leva proprio sulla grazia di quell’infinita misericordia. Ma servono appunto - sia pure in extremis e nell’intimo insondabile della coscienza - la libertà di un pentimento, la presa di consapevolezza del male commesso e la volontà di chiedere perdono (in fondo è il percorso di ritorno a casa del Figliol Prodigo). Dante, per fare un altro esempio letterario, ce ne offre un esempio nel Canto di Manfredi, il terzo del Purgatorio, in cui racconta che il sovrano svevo, pentitosi in punto di morte dei suoi gravissimi peccati, si è guadagnato il perdono divino.
In sostanza, per dirla in maniera più teologica, l’infinita misericordia di Dio attiene alla sua potestà assoluta, per noi imperscrutabile. Quello che con San Paolo possiamo dire da uomini è che in maniera ordinaria essa passa attraverso l’appartenenza alla Chiesa e i sacramenti. Papa Francesco ce lo ricorda costantemente, quando per invitarci ad accedere al sacramento della riconciliazione, dice che Dio non si stanca mai di perdonare, piuttosto siamo noi che ci stanchiamo di chiedere perdono.
Anche la sorte eterna di Matteo Messina Denaro, dunque, si inscrive in questo formidabile rapporto tra misericordia divina e libertà umana, tra possibilità di salvezza offerta a tutti tramite il sacrificio di Cristo e richiesta di perdono. Il Vangelo stesso ne riproduce il paradigma con la vicenda del Buon Ladrone. Ed è da notare che rivolgendosi solo a lui, per assicurargli il Paradiso dopo il pentimento e la richiesta di perdono, Gesù anche in un momento così decisivo rispetta la suprema libertà dell’altro uomo. Perché il “tu puoi” vale anche per lui. Come per Messina Denaro e per tutti noi.