Vizio totale di mente, capacità d’intendere e volere, semi-infermità. Tre "stati" che nel caso Kabobo si sono rincorsi sin dal giorno del suo arresto nel maggio scorso. All’inizio il ghanese che uccise a colpi di piccone tre passanti venne dichiarato, al momento del fatto, con capacità d’intendere «grandemente scemata, ma non totalmente assente» e capacità di volere «sufficientemente conservata». Dunque processabile come sano di mente e rinchiuso in carcere in attesa di giudizio. Una perizia del tribunale a gennaio, dopo un anno e mezzo di reclusione, ne ha però chiesto invano il trasferimento in opg. Infatti, secondo i giudici del riesame, il suo posto è la cella perché «non vi è incompatibilità» tra la detenzione e la patologia psichiatrica del picconatore di Milano. In più, dicono, «sussiste un gravissimo ed eccezionale pericolo di reiterazione di delitti della stessa specie». Il processo Kabobo tuttavia è solo l’ultimo episodio (restano esemplari anche casi come quello di Bartolomeo Gagliano), in cui il tema complicato e delicato delle perizie psichiatriche torna centrale, stabilendo il limite tra il carcere e l’opg. Un’asticella sottile e labile, insomma, tra il reo e il folle-reo e reo-folle, almeno secondo la giustizia. Ma che cambia profondamente il destino del presunto infermo che commette un reato.È come scoperchiare un vaso di Pandora, però. Che inizia col portare alla luce il tariffario al ribasso con cui vengono pagati i periti dal tribunale. E non solo perché il prezzario è fermo a dodici anni fa, ma anche per il fatto che uno psichiatra forense percepisce meno di un decimo di un ingegnere chiamato dal tribunale, ad esempio. Eppure dalla sua perizia deriva il futuro di un uomo, prima che di un carcerato. Scorrendo, difatti, il decreto di adeguamento dei compensi di periti e consulenti del 30 maggio 2002, si legge che «per la perizia o la consulenza tecnica in materia psichiatrica o criminologica spetta al perito o al consulente tecnico un onorario da euro 96,58 a euro 387,86». Ovviamente lordi. Da dividere tra visite in carcere, presenze nelle udienze, lettura dei fascicoli e la stesura della perizia vera e propria.Ma gli psichiatri vanno oltre la semplice questione monetaria. E chi non fa perizie in tribunale per scelta, come Mario Iannucci, presidente della Società italiana di psichiatria penitenziaria, ne descrive tutte le storture. «Un medico che non ha in cura la persona da molto tempo - esordisce - non è in grado di ricostruire situazioni gravi». Le valutazioni, perciò, «devono farle i clinici», dice. Ecco perché secondo lui, «è farsesca» la logica di interpellare uno psichiatra forense, anche perché «spesso sono staccati dai servizi che hanno in cura il paziente» colpevole di reato. In più, affonda Iannucci, spesso i periti vengono nominati tra persone di fiducia del magistrato, «anche perché sono in grado di leggere le sue intenzioni». E, tuona alla fine, «chi accetti di assecondare il pregiudizio di chi gli assegna una perizia delicata all’interno di un servizio indelicato è già povero». Sulla stessa lunghezza d’onda Peppe dell’Acqua del Forum Salute Mentale, che arriva a definire la psichiatria troppe volte «ancella-soccorritrice della giustizia» e il perito colui che accetta di fare «un’operazione ideologica che non ha fondamento scientifico», a cui tuttavia viene riconosciuto «un super potere. E questo è l’aspetto più delicato e terribile». Perciò, dice, occorre interrogarsi «sull’insensatezza delle risposte che pretende di dare, sui destini che essa drammaticamente costruisce». Drammatici, «perché fondati su processi di annientamento al di fuori di un pur che minimo criterio oggettivo», aggiunge, che non c’è e non può esserci anche se i periti venissero pagati il quadruplo. Così il nodo delle perizie psichiatriche sta soprattutto nel ruolo che gli si affida, cioè quello di stabilire la pericolosità sociale di una persona. Quando si certifica che un detenuto è pericoloso socialmente, conclude perciò lo psichiatra triestino, «nessuno sa quello che dice».