mercoledì 13 agosto 2014
Doppio «no» a congedo e indennità anche dal Tribunale. Per l'Istituto è solo un'educatrice e non anche (e soprattutto) genitore.
INTERVISTA Ramonda: «Per le case famiglia serve riconoscimento giuridico»
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«Mi hanno trattata come una ladra e come una persona attaccata esclusivamente ai soldi. È stato spaventoso e, quando ci penso, mi viene ancora da piangere». Fatica a trattenere la rabbia e la delusione, Cristina Sacchi, mamma milanese di 48 anni, mentre racconta la disavventura che le è toccata per il solo fatto di avere aperto la propria  casa all’accoglienza di minori in difficoltà. Dal 2011, insieme al marito Tommaso Greco, ha aderito alla proposta dell’associazione Aibi-Amici dei bambini, di dare vita alla casa famiglia “La tenda di Giobbe”, nell’hinterland milanese, per l’accoglienza di bambini e adolescenti. Già genitori di cinque figli (tre quasi trentenni e due gemelli di 8 anni), Cristina e Tommaso si sono ulteriormente aperti all’affido di altri otto bambini, sia italiani che stranieri.  Per ciascun affido, Cristina, infermiera professionale presso una struttura sanitaria della Lombardia, come prevede la legge, presenta domanda di congedo di maternità all’Inps, ricevendo la relativa indennità. Per un anno e mezzo tutto va bene finché, a maggio del 2013, l’Istituto di previdenza, con un’unica comunicazione, rigetta tutte le domande chiedendo il rimborso delle somme fino a quel momento erogate, pari a 21mila euro.  Passata la sorpresa iniziale, Cristina, tramite il portale dell’Istituto (www.inps.it), avvia subito un primo ricorso, che viene respinto con una comunicazione ufficiale del Comitato provinciale di Milano del marzo di quest’anno. Parte, quindi, il ricorso alla giustizia ordinaria presso il giudice del lavoro, ma anche questo passaggio è sfavorevole alla donna. Con sentenza del 15 luglio, il giudice del Tribunale di Milano, Giorgio Mariani, rigetta il ricorso perché «l’affido era stato concesso ad un ente morale (in questo caso ad Aibi ndr.) e non ad una persona fisica». In sostanza, per il Tribunale, che sul punto si allinea alla tesi dell’Inps, Cristina «era solo colei che gestiva la comunità familiare» e perciò non aveva diritto al congedo di maternità. Più che la mamma, per l’Inps (e per il giudice) era una semplice educatrice e quindi esclusa dal diritto al congedo di maternità. Con la differenza che gli educatori sono, giustamente, stipendiati, mentre lei e il marito hanno sempre svolto questo servizio come volontari e senza percepire alcun compenso.  «Al processo non mi hanno fatta parlare perché lo potevano fare soltanto gli avvocati – sbotta Cristina –. Altrimenti avrei spiegato al giudice che cosa significa fare la mamma affidataria. Con l’ultimo arrivato, un piccolino senegalese di un anno con tanti problemi di salute, sono stata due settimane in ospedale proprio come fa una  mamma. Questo le educatrici non lo fanno. Io mi sento e sono una mamma per i miei figli, per tutti, sia quelli naturali che quelli affidati. Chi ci incontra per la strada non riesce a distinguere tra gli uni e gli altri, perché io e mio marito diamo a tutti l’amore di mamma e papà. Un amore che a questi bambini ha davvero cambiato la vita e che nessuna sentenza riuscirà a fermare». Nonostante tutte le disavventure cui sono andati incontro, i coniugi Greco non hanno smesso di accogliere minori nella loro casa e oggi, a tre anni dall’avvio della Tenda di Giobbe, sono arrivati a quindici.  Un aspetto, quest’ultimo, riconosciuto anche dallo stesso giudice Mariani, che nella sentenza scrive che l’attività posta in essere da Cristina e Tommaso è «meritoria dal punto di vista sociale». Tuttavia, siccome formalmente l’affido dei bambini era posto in capo ad Aibi, mamma Cristina non aveva diritto al congedo. Curiosamente, l’aveva invece il marito Tommaso che, come ricorda nella memoria difensiva l’avvocato Luca Rebuscini, per una delle figlie affidate ha chiesto il congedo di paternità. Che è stato concesso e non è mai stato revocato. «Questo è un altro dei paradossi di questa vicenda, dovuto al fatto che, in Italia, la casa famiglia non ha ancora ricevuto riconoscimento giuridico», osserva il presidente di Aibi, Marco Griffini, che annuncia l’intenzione di presentare, contro la decisione del Tribunale di Milano, ricorso in Appello e, se necessario, anche in Cassazione. «La legge sull’affido non è chiara su questo punto – spiega Griffini –. Dice che i minori vanno affidati ad una famiglia oppure a una comunità di tipo familiare, caratterizzata da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia. Ma queste condizioni si realizzano soltanto in presenza di una famiglia con un papà e una mamma, come quella di Cristina e Tommaso».  Decisiva, per Griffini, è l’interpretazione dell’aggettivo “familiare”, che il Tribunale di Milano ha letto in senso «restrittivo». Un’interpretazione più «estensiva», secondo Griffini, avrebbe invece portato il giudice a ritenere Cristina genitore a tutto tondo e non un mero «gestore» di una comunità per minori. Che, particolare non secondario, è realizzata nella casa della famiglia Greco. «Questa incresciosa vicenda – conclude Griffini – denuncia un vuoto normativo al quale è necessario rimediare con urgenza: la casa famiglia deve essere riconosciuta giuridicamente, distinguendola dalla comunità educativa e prevedendo una normativa adeguata alla sua unicità. Non è più accettabile che lo spirito di accoglienza e generosità di una famiglia venga frustrato da una legislazione miope, incapace di scorgere la differenza tra un genitore e un educatore».
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