giovedì 10 maggio 2018
I vescovi siciliani ad Agrigento, 25 anni dopo l’invettiva di Giovanni Paolo II
L’immagine di papa Wojtyla appoggiato alla croce, nella Valle dei Templi. Al termine della Messa del 9 maggio 1993 urlò con veemenza: «Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!». Fu un «grido di dolore pubblico», come ebbe a definirlo il pontefice stesso durante un’udienza pubblica a Roma tempo dopo

L’immagine di papa Wojtyla appoggiato alla croce, nella Valle dei Templi. Al termine della Messa del 9 maggio 1993 urlò con veemenza: «Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!». Fu un «grido di dolore pubblico», come ebbe a definirlo il pontefice stesso durante un’udienza pubblica a Roma tempo dopo

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Estremo rigore, puntando alla conversione. È questo il ruolo della Chiesa del Terzo millennio nei confronti della mafia e della mentalità mafiosa: esprimere una dura condanna lasciando aperta la porta della misericordia, perché i colpevoli si convertano e cambino vita. La sconfitta della mafia passa da qui, secondo i vescovi siciliani, che ieri si sono ritrovati ad Agrigento, nella Valle dei Templi, e hanno dato alle stampe una densissima lettera in occasione dei venticinque anni dall’appello di Giovanni Paolo II fatto proprio qui.

Fu quel 'Convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio', scandito a braccio con voce vibrante tanto da incidersi a fuoco nei cuori e nelle menti di tutti. Un annuncio mirato, pronunciato negli anni in cui continuavano a cadere sotto i colpi della mafia tanti servitori dello Stato, le stragi di Capaci e Via D’Amelio un anno prima. «Un grido sgorgatomi dal cuore» avrebbe poi detto Giovanni Paolo II a un gruppo di pellegrini siciliani in Vaticano, durante l’udienza del 22 giugno 1995. E da qui vogliono ripartire i vescovi, perché tutti si lascino interpellare ancora da esso. Ricordando le numerose vittime della violenza mafiosa, la Chiesa siciliana ribadisce che la mafia è peccato e i mafiosi sono peccatori, giacché oppongono un «rifiuto gravemente reiterato nei confronti di Dio e degli esseri umani».

A questo peccato si rendono solidali anche i fiancheggiatori dell’organizzazione mafiosa, i 'colletti bianchi' e coloro che ne coprono i misfatti con la connivenza e con il silenzio omertoso. Si tratta di un peccato gravissimo, che di fatto pone al di fuori della comunione ecclesiale chi lo compie. «C’è una scomunica de facto che entra in vigore anche a prescindere dalla scomunica de jure: consiste nell’autoesclusione dalla comunione con il Signore e con i suoi discepoli, cui si condanna chi preferisce incancrenirsi nel peccato e incamminarsi lungo i sentieri senza ritorno della corruzione» si legge nel documento. I vescovi ribadiscono l’incompatibilità tra la mafia e il Vangelo, come aveva ben compreso don Pino Puglisi, ucciso il 15 settembre 1993: «Quella sua resistenza cristiana parve ai mafiosi di Brancaccio un prolungamento del grido di Agrigento».

Così come quella di don Peppe Diana, parroco a Casal di Principe, ucciso dalla camorra pochi mesi dopo. Consapevoli che il fenomeno mafioso interessa da vicino la Chiesa, i vescovi siciliani ritengono urgente rinnovare un discorso ecclesiale sulle mafie, usando parole proprie, aderenti al Vangelo. Traspare l’analisi di monsignor Cataldo Naro, studioso del rapporto Chiesa-mafia, scomparso nel 2006. Il discorso ecclesiale ha bisogno di un «timbro peculiare» per essere «profetico ». «Le condanne pubbliche e le scomuniche più o meno esplicite hanno eco brevissime», «deve preoccuparci che il nostro discorso soffra di una certa inefficacia performativa: cioè non giunga a interpellare e a scuotere davvero i mafiosi».

«È la conversione la meta» anche per i mafiosi, «una conversione sincera, sperimentata in prima persona e in intima relazione con il Signore. Ma non intimistica, bensì vissuta secondo le regole penitenziali della Chiesa e i cui frutti di vita nuova siano inequivocabilmente percepibili e pubblicamente visibili». L’annuncio che «il Signore è misericordia e opera meraviglie nelle nostre miserie» «può e deve valere anche per i mafiosi», se ci si pente e si cambia vita. «E dobbiamo, quindi, tornare a fare questo annuncio proprio a loro, sfruttando ogni buona occasione: nel catechismo agli adolescenti, in cui anche i figli dei mafiosi devono essere coinvolti, non meno che negli altri momenti formativi dedicati ai giovani e agli adulti; nella celebrazione – sempre comunitaria – di sacramenti importanti per la vita ecclesiale come il battesimo, la prima comunione e la cresima; nelle omelie durante i funerali delle vittime di mafia, ma anche – dove e quando sia fattibile – durante le esequie di persone defunte che sono appartenute alla mafia». L’eco del monito di Giovanni Paolo II deve giungere «fino a voi, fratelli e sorelle, che vi trovate invischiati nelle paludi della mafia».

Così diceva il beato Puglisi in una sua omelia del 20 agosto 1993, nella chiesa parrocchiale di San Gaetano, a Palermo: «Mi rivolgo ai protagonisti delle intimidazioni che ci hanno bersagliato. Parliamone, spieghiamoci ». Non c’è altra via se non quella indicata da papa Francesco, in un’udienza del 21 febbraio 2015, «a chi come voi vive nel male e nel peccato, compiendo gravissimi reati e violando le giuste leggi umane oltre che i comandamenti divini: 'Aprite il vostro cuore al Signore. Il Signore vi aspetta e la Chiesa vi accoglie'».

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