Hanno ucciso ventiquattro volte e ferito più di cento persone. Difficile ancora oggi non provare un moto di orrore e rifiuto rispetto a quanto è successo tra il 1987 e il 1994, quando la famigerata "banda della Uno Bianca" sparse il terrore tra Emilia Romagna e Marche, rapinando supermercati, banche e uffici, e lasciando sull’asfalto decine di vittime. Sei criminali spietati facevano parte della banda, cinque dei quali erano poliziotti. Tra questi, i famosi fratelli Savi e Marino Occhipinti, l’uomo che prima di Natale dal carcere di Padova - dove scontava l’ergastolo per l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari - ha chiesto la semilibertà.E ieri, per decisione del Tribunale di sorveglianza di Venezia, l’ha ottenuta, dopo aver scontato 17 anni. Impossibile non comprendere e fare proprio il sentimento di Luigi Beccari, l’anziano padre di Carlo, ucciso da Occhipinti nel 1988, durante l’assalto a un furgone portavalori alle porte di Bologna: un padre che oggi trascina la sua vecchiaia in carrozzina, solo, privato di quel figlio che era la sua consolazione. «Sono avvelenato - dice -. Mi hanno detto che sua madre vuole venire in casa mia a chiedere perdono. Ma quale perdono? Io ho un figlio morto e sono solo, mia moglie è in una casa di riposo... Quel delinquente deve marcire dentro».Ma impossibile anche negare all’altra madre, quella di Occhipinti, il dovere/diritto di prostrarsi e chiederlo, il perdono, che le venga concesso o meno. «Non ne so nulla, ora proverò a chiamare mio figlio in carcere», mormorava ieri ai giornalisti che la interpellavano sulla notizia della semilibertà per l’ex poliziotto della Mobile di Bologna. Vedova da pochi mesi, anche lei malata e anziana, si affanna a ripetere che suo figlio «oggi è un’altra persona» e a insistere per quel perdono. «Si è dissociato e in carcere si è comportato bene - è la risposta di Rosanna Zecchi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca -, ma per sette anni se n’è stato zitto, pur sapendo cosa accadeva tra i poliziotti di Bologna. Se avesse parlato subito, quante vite si sarebbero salvate!». Impossibile non comprendere soprattutto lo strazio inascoltato dei parenti delle vittime quando gridano che «non è vendetta ciò che vogliamo, è giustizia». Sì, ma impossibile è anche non chiedersi in questi 17 anni che ne è stato di Marino Occhipinti, l’uomo che nel dicembre del 2009 abbiamo personalmente incontrato nel suo ergastolo di Padova, grazie a Nicola Boscoletto e ai volontari della Cooperativa Giotto, la stessa che nel carcere insegna ai detenuti a produrre un panettone d’eccellenza, per qualità ma molto più perché è una via per il riscatto. Di riscatto gli parlava, quel giorno, Margherita Coletta, giovane vedova di un carabiniere ucciso a Nasiriyah. Di riscatto e pentimento, di remissione dei peccati ed espiazione. «Non avrei mai immaginato parole simili», ci scrisse poi Occhipinti. «Avevo sempre pensato che i sensi di colpa per ciò che avevo fatto mi dovessero divorare giorno per giorno, e che solo quello sarebbe stato il modo adeguato per pagare nei confronti delle mie Vittime». «Oggi hanno vinto lo Stato e la Giustizia, un carcere che redime e la Costituzione», commenta Boscoletto, «ma questo certo non possiamo chiederlo ai parenti delle vittime», che in questa vita non vedranno risarcimento. Come ci disse Occhipinti «ho scoperto la misericordia di Cristo, anche se gli errori che ho commesso non si dimenticano».