Alcune persone che parlano davanti all’ingresso del camposanto si interrompono e guardano incuriosite. Entriamo. Carmelo, l’altro poliziotto, chiede gentilmente: «Scusi dove è la cappella della famiglia Princi?». «In fondo, scendete le scale e poi a sinistra». Il cimitero è piccolo, appoggiato su un colle che guarda verso la Piana di Gioia Tauro e i boschi dell’Aspromonte. Non ci vuole molto a trovare la cappella. Guardiamo attraverso la porta a vetri scuri. Sulla tomba le foto di un ragazzo sorridente, alcuni pupazzi di Winnie the Pooh, tre palloni da calcio, le magliette della Juventus e della Reggina. Siamo arrivati. Siamo arrivati da Francesco “Ciccio” Inzitari, assassinato dalla ‘ndrangheta nel dicembre 2009 per vendicarsi del padre Pasquale. Aveva appena compiuto 18 anni, e stava uscendo da una pizzeria dove aveva passato la serata con gli amici. Come tanti ragazzi. Ma i ragazzi non muoiono così. Don Luigi osserva, le mani che stringono il viso. «Non si può accettare che si uccida, e ancora di più che si uccida un ragazzo». Pensa a Ciccio ma anche a Domenico Dodò Gabriele, il bambino di 11 anni stroncato mentre giocava in un campo di calcetto a Crotone dai proiettili indirizzati a un mafioso.
La commozione è evidente. Non solo la sua. Sabato sulle pagine di Avvenire la sorella maggiore di Francesco, Nicoletta, aveva timidamente fatto una richiesta in vista del previsto allenamento della Nazionale di calcio su un campetto costruito a Rizziconi su un bene confiscato alla cosca Crea, quella che secondo gli investigatori sarebbe coinvolta nell’omicido. «Mio fratello era tifosissimo della Juventus. Sarebbe bello che dopo l’allenamento Buffon e gli altri giocatori juventini portassero un fiore sulla sua tomba. Sarebbe un regalo a lui e a tutti noi». Purtroppo, per i rigidi tempi dei calciatori, non è stato possibile. «Domani ci vado io, mi accompagni?», ci aveva allora proposto don Luigi. «Poi ne parlerò a Buffon», aveva aggiunto, lui che non solo è tifoso juventino ma anche molto amico di alcuni calciatori bianconeri. «Va bene, ci vediamo domani».Visita privatissima.
Col cronista che per una volta tiene chiusi taccuino e macchina fotografica. «Questa tomba, come tante altre delle vittime di mafia, non sembra un luogo di morte ma di vita, di speranza. Piena di colori», riflette il fondatore di Libera. E poi quei tre palloni portano subito alla mente ciò che accadrà tra poche ore sul campo di calcetto del paese di “Ciccio”. «Dio deve dare a tutti la “pedata” per farci fare scelte di vita, di libertà, di impegno. Sì, ci vuole proprio la “pedata di Dio”. Anche oggi… già, il calcio, e la “pedata di Dio”». Quel calcio che “Ciccio” amava tanto. E nel silenzio del cimitero la preghiera di Gesù avvolge la tomba colorata. «Padre nostro che sei nei cieli…», i poliziotti assieme a noi (per pietà cristiana e perché Francesco l’avevano conosciuto). Lasciamo questo luogo di dolore e di speranza. All’uscita, le persone sembrano ancora più incuriosite. Forse domani leggendo i giornali capiranno. «Parlerò di Francesco nel mio intervento davanti alla Nazionale», dice don Luigi affidando a un foglio le sue riflessioni. E così è. «Questa mattina sono stato a pregare sulla tomba di Francesco “Ciccio”…».
I giovani rizziconesi e degli altri paesi vicini capiscono subito. Parte un lunghissimo applauso, il più forte e convinto, una vera standing ovation. Tutti in piedi. È certamente il momento più emozionante della giornata. Un amico calabrese commosso ci spiega. «È come se dicessero ai mafiosi, “Francesco è nostro, non è vostro, è uno di noi”». Anche gli azzurri applaudono. Più tardi Buffon dirà di aver «provato un forte brivido dentro di me». Altri confessano di essersi commossi. Così come quando don Luigi ha presentato ai calciatori i genitori di Dodò. Davvero «quei morti non sono “loro”, sono nostri. Oggi ce li siamo ripresi, grazie don Luigi», dice un altro giovane calabrese. La vita ha sconfitto la morte. È questo davvero è stato il senso della presenza della Nazionale a Rizziconi. In quel campetto dove giocheranno tanti giovani come Ciccio e Dodò. «Diamo un calcio alla ‘ndrangheta», anche nel loro ricordo. Già davvero tanto è cambiato da quel 16 febbraio 2007 quando cominciavamo il nostro articolo sul campetto vandalizzato con questa parole: «Cancello divelto. Spogliatoi devastati. Porte e finestre strappate via. Recinzione abbattuta».
La cosca aveva ordinato con quel gesto: «Qui non si gioca». Ora, invece, la partita può cominciare davvero. La mafia è in fuorigioco