Sono partiti in migliaia solo nelle ultime settimane. Chi rimane posta per loro su Facebook il video con le istruzioni su come geolocalizzarsi attraverso Viber e Whatsapp. Altri condividono il bollettino delle condizioni del mare o un numero a cui poter far riferimento in caso di difficoltà. La verità è che basta un’onda più grossa, la truffa del poco carburante o qualche manovra sbagliata del migrante inesperto a cui il trafficante turco ha affidato il timone del gommone 'usa e getta', perché bambini e famiglie diventino un nome dell’elenco dei dispersi scritto a penna e poi fotografato per i social, o una foto con la banda nera da condividere, sotto la quale scrivere un’invocazione a Melek Taus, il Dio-pavone yazida. C’è quella di una bambina bionda di 11 anni, vestita di rosa. E quella di Jod, due anni, ritratto a casa e poi dopo il naufragio, col volto nell’acqua. Più della metà dei bambini partiti da Bodrum e dalle coste turche, diretti in Grecia con fratelli e famiglie e scomparsi in mare nelle ultime settimane, appartengono alla minoranza religiosa di etnia curda che Daesh massacra da oltre un anno: 35 minori solo negli ultimi giorni, su un centinaio di yazidi, originari dell’area di Sinjar e Mosul. I piccoli dell’ultimo naufragio sono stati re- cuperati sulle spiagge turche. Hanno sempre il salvagente ma non sopravvivono alla temperatura dell’acqua. Secondo l’ufficio immigrazione di Erbil circa 10.000 yazidi hanno lasciato l’Iraq e il Kurdistan dall’inizio degli attacchi del califfato nella piana di Ninive lo scorso anno per chiedere asilo in Europa e soprattutto in Germania, dove vive la più grande comunità yazida fuori patria del mondo, 400.000 persone. A novembre in 16.000 si trovavano nelle aree a sud della Turchia e nei campi profughi siriani, pronti a partire per le coste. E anche i campi allestiti nel Kurdistan iracheno, nelle province di Duhok, Erbil e Sulaymaniyah, per molti stanno diventando la tappa di un viaggio più lungo, dai villaggi abbandonati in fretta un anno fa e poi distrutti dal sedicente Stato islamico e dai bombardamenti della coalizione, all’Europa. «Il governo curdo e quello iracheno ci hanno traditi facendoci massacrare nel genocidio per mano di Daesh il 3 agosto 2014. Adesso gli yazidi hanno perso ogni fiducia nel Paese e nella politica, e sentono di non essere al sicuro se non sarà riconosciuta una protezione internazionale», spiega Ali, 35 anni di Mosul, da poco arrivato in Germania. «La scelta per noi è morire o convertirci, come vorrebbero i musulmani del Califfo che ci perseguiterà ancora, o morire nei campi profughi. Alcuni vogliono rimanere per difendere la propria terra. Chi può, parte per un nuovo esodo». La liberazione a novembre di Sinjar, la capitale culturale e religiosa yazida, per i più è stata solo propaganda politica. Le case e i villaggi limitrofi sono distrutti e nessuno è in grado di rientrare nelle proprie case. Almeno 3.000 tra donne e ragazze sono ancora schiave dei miliziani di Al Baghdadi, e non bastano per riaverle libere le reti degli attivisti che gestiscono il loro riscatto o i capi tribù mediatori. E quando tornano, hanno bisogno di cure psicologiche che in Iraq non sono possibili. Gli yazidi raccolgono i soldi del viaggio in famiglia, con la promessa di aiutare genitori e fratelli una volta arrivati a destinazione. Secondo qualche racconto, i trafficanti curdi selezionano evitando i 'clienti' musulmani e si occupano di organizzare un viaggio attraverso la Turchia magari a bordo di un camion. Molti di coloro che partono dai campi profughi turchi ha vissuto in condizioni disperate anche per più di un anno: le famiglie sopravvivono con piccoli lavori a nero e subiscono intimidazioni e violenze. Dal Kurdistan, chi ha il passaporto, per 70 dollari parte da Duhok con gli autobus di una delle due compagnie che coprono la tratta verso Istanbul. 22 ore di viaggio. I trafficanti fino a 6 mesi fa chiedevano oltre 10.000 dollari a persona per arrivare in Serbia ed affidarsi ad un’ altra organizzazione. Adesso i prezzi sono scesi: da 2.000 a 4.000 dollari per arrivare in Grecia. Ma lo scorso 20 dicembre, in 400, tra cui un centinaio di bambini, erano bloccati su una delle isole greche senza sapere dove andare. Dopo Lesbo si va in traghetto ad Atene, poi al confine con la Macedonia, verso Gevgelija. Da qui il treno diretto al confine serbo. Da Sid, in Serbia, verso la Croazia. E poi ancora a Salisburgo, in Austria, poi in Germania con tappa finale al Centro di registrazione di Heidelberg. «Siamo preoccupati per i migranti yazidi. Scoraggiare queste persone a intraprendere il viaggio è difficile e comprendiamo la sofferenza per la loro scelta, così abbiamo deciso di costituire una squadra di soccorso volontaria sulle isole greche in collaborazione con Bahzany Net – fanno sapere dalla Ong irachena e statunitense Yazda – il nostro appello è rivolto a tutte le associazioni, e gli attivisti yazidi: sostenete il gruppo, anche dando informazioni attraverso i social e i numeri di telefono messi a disposizione ». Chi arriva in Grecia, si scatta una foto di gruppo ancora col salvagente e i figli in prima fila, da inviare ai parenti che la diffondono ringraziando. Sorriso e occhi lucidi. Altri faranno girare al lungo la foto dei piccoli scomparsi, sperando che qualcuno li riconosca in qualche campo o in ospedale.
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il salvataggio di un bimbo a Lesbo
(REUTERS/Giorgos Moutafis)