Ore 6 di un giorno qualunque tra ottobre e aprile, la stagione degli agrumi, la stagione degli schiavi. Percorriamo in auto le stradine interne della Piana di Gioia Tauro, tra uliveti e agrumeti. Improvvisamente, illuminato dai fari, compare dal buio un uomo africano, poi un altro. Decine, centinaia, a gruppi o in fila. «Vanno a prostituirsi», ci dice Bartolo Mercuri, fondatore e presidente dell’associazione "Il Cenacolo" di Maropati che cerca di aiutare gli immigrati che ogni anno si spostano nella Piana per la raccolta delle arance e delle clementine. E con quella parola dura illustra bene l’inizio della giornata dei circa cinquemila immigrati che ogni mattina agli incroci della zona si "offrono" ai "caporali" che reclutano la manodopera per l’agricoltura. È lui, che gli immigrati chiamano "Barto" o "papà", ad accompagnarci in questo viaggio nell’inferno dello sfruttamento e che in parte spiega quanto sta accadendo. «Si è voluto ignorare questo problema per troppo tempo – commenta – lasciando noi del volontariato da soli a cercare di aiutare questi nostri fratelli». Ci dirigiamo verso Rosarno e i gruppi di immigrati aumentano. Ecco i primi luoghi del reclutamento. Ci fermiamo ed è un primo assalto. «Lavori, lavori», chiedono come una cantilena. «No Caritas». E allora le richieste cambiano. «Copertì e scarpe». Già fa freddo in questo inverno calabrese. Soprattutto di notte. Soprattutto se si dorme dove capita. E la nuova sosta è proprio in uno di questi luoghi, "la Rognetta", una ex fabbrica. Fuochi accesi illuminano centinaia, forse 400 africani. I più fortunati hanno dormito tra quattro gelide mura diroccate. Gli altri sotto baracche di plastica e cartone. «Lavori, lavori», riprende la cantilena. «No Caritas, poi passiamo, fatevi trovare per il cibo e le coperte». Questo pomeriggio, infatti, Bartolo passerà col suo pullman («Ne carico 120, la polizia chiude un occhio»), per portarli nella sede dell’associazione e rifornirli un po’ di tutto. «Ma non solo mangiare – risponde secco uno di loro –. Ho quattro figli, ho bisogno di soldi da mandare a casa...». Questi Bartolo non può certo darli, ma continua ad aiutarli. Anche se qualcuno gli ha già bruciato due pullman. Sa che dà fastidio. «Il Signore mi ha chiamato per aiutare questi nostri fratelli. Io faccio solo la sua volontà».Riprendiamo il viaggio lungo la statale, che è ormai un fiume quasi ininterrotto di africani, e proprio sul confine col comune di Gioia Tauro ecco comparire il simbolo di questo inferno. Ex Opera Sila, impianto industriale per la produzione dell’olio. Costruito coi soldi pubblici ma di olio non è mai uscito un solo goccio. La classica cattedrale nel deserto. Ci volevano gli africani per renderla utile... almeno per loro. Sono 800, forse anche di più. Senza acqua né luce. Solo alcuni bagni chimici fatti portare dai commissari straordinari di Gioia Tauro, che come Rosarno ha avuto l’amministrazione comunale sciolta per infiltrazione mafiosa. Dormono dentro tendine montate nei capannoni (hanno il tetto in pericolosissimo eternit), o sotto cartoni e teloni. E c’è chi addirittura si è sistemato dentro i grandi silos in metallo: si entra in ginocchio attraverso una botola, quasi un sommergibile in verticale. Stretto ma almeno al coperto. Anche qui fuochi accesi. Qualcuno cucina. «Ci ho visto cuocere un cane qualche giorno fa», ricorda Bartolo. Lo riconoscono. «Barto, papà». E poi ancora la cantilena. «Lavori, lavori». Ma anche altre precise richieste. «Barto mi servono vestiti per bambini. Li mando a casa». E altre inaspettate. «Holy Bible». Già, proprio la Bibbia. Bartolo ne porta sempre alcune copie, sia in inglese che in spagnolo. «Gran parte di loro sono cristiani e mi chiedono anche coroncine. Dicono "Dio" e "Croce". Ne ho distribuite a migliaia».Pian piano il sole fa capolino e il fiume di immigrati si ingrossa. Alcuni escono su vecchie auto, strapiene. Station wagon con 10-15 persone a bordo. «Oggi lavoro», dice l’autista. Forse uno dei "caporali" di colore, primi intermediari della catena di lavoro che, comunque, fa sempre riferimento a "caporali" italiani, e a proprietari terrieri quasi sempre di famiglie ’ndranghetiste. Ma così, tra intermediario e intermediario, va a finire che di 20-25 euro al giorno finiscono nelle tasche del lavoratore non più di 18. E per 12-14 ore di lavoro massacrante. «I mafiosi dicono "ma faccio del bene a farli lavorare" – riflette Bartolo –. Pensano di essere benefattori...». Ma tutti gli immigrati sperano di trovarlo questo lavoro. Fuori, parcheggiata, un’auto della polizia, sorveglia questo fiume. Tutti sanno che gran parte sono clandestini ma non si può intervenire.Torniamo verso i luoghi di reclutamento. Ormai affollatissimi. Ci sono quelli degli africani e quelli degli europei dell’est, polacchi, bulgari, ucraini, albanesi e romeni. Loro sono più organizzati, in parte stanziali, alcuni con le famiglie. Non dormono nelle ex fabbriche ma in case. Certo non sono ville: 20 bulgari pagano 100 euro al mese per "vivere" in un garage di pochi metri quadri. Si fermano molti furgoni. Un occhiata e l’autista fa salire alcuni immigrati. Per loro è un giorno fortunato. Altri restano lì, per ore. Poi si arrendono e tornano a "casa". A fine mattina ne raggiungiamo alcuni. Collina di Rizziconi, altro paese della Piana. L’immagine è da choc. Tra gli ulivi è sorta una vera favela, piccole baracche di sacchi di plastica, legno e scotch. Sono in 200 a vivere in queste condizioni. Oggi non si lavora. Domani chissà... Alle 5 di nuovo in fila per "prostituirsi".