lunedì 11 giugno 2012
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​«Non imparare il latino significa disimparare le lingue moderne; organizzare la sparizione degli studi che permettevano di mantenere un buon legame della lingua e cultura latina nei ragazzi europei, vuol dire organizzare la cancellazione della lingua e della cultura europee». Il j’accuse arriva d’Oltralpe e da nomi prestigiosi, accademici e letterati che vedono nell’allontanamento della lingua dei romani dai curriculum scolastici un imbarbarimento che sta impoverendo la cultura e la scuola. L’emergenza è ormai decennale: due "big" dell’intellighenzia europea come il matematico Laurent Lafforgue e l’oncologo Lucien Israël nel 2000 avevano pubblicato un articolo su Le Monde chiedendo «il latino obbligatorio negli studi letterari europei». E invece… Invece capita, in Francia, che l’idioma di Cicerone sia scomparso dall’iter universitario di lettere moderne. E addirittura che nell’impervio esame dell’aggregation per l’insegnamento delle materie letterarie il candidato possa scegliere tra latino e greco. In alternativa. Anche da noi la situazione non è rosea: in molti licei scientifici gli studenti si vantano di non dover spremere le meningi su Tacito o Cesare. Un’emergenza che ha spinto in questi giorni l’autorevolissima rivista dei gesuiti Civiltà cattolica a ritenere «opportuno che nella scuola italiana si continui a educare gli studenti alle lingue classiche (greco e latino), senza le quali sarebbe superficiale l’accesso alla necessaria conoscenza del patrimonio della cultura dell’Occidente». Infatti, denuncia padre Giandomenico Mucci sul quindicinale della Compagnia di Gesù, «l’opzionalità dello studio delle lingue classiche nei licei dispone alla scomparsa del greco e del latino nella scuola italiana». Ma ora qualcuno sta provando a raddrizzare la situazione. Ci tenta, dal 2008, l’Associazione per il latino nelle letterature europee (Alle), promossa da alcuni docenti parigini (www.sitealle.com). Organizzatori, a oggi, di 18 conferenze con altrettanti specialisti (diritto, scienze sociali, teologia, vita della Chiesa, poesia…) chiamati a raccolta per rinverdire il contatto tra il latino e il nostro parlare, scrivere e pensare contemporaneo. Personalità come il filosofo Rémi Brague, il poeta Yves Bonnefoy, lo storico del pensiero Pierre Manent. Obiettivo? Fare in modo che «ogni lingua sia suscettibile di mantenere un’esperienza e una sensibilità umana singolare, in modo da non parlare tutti la stessa lingua, un globish adattato ai bisogni mondializzati». Lo scrivono Cécilia Suzzoni e Hubert Aupetit nell’introduzione a Sans le latin… (Mille et une nuits), la raccolta delle conferenze promosse dall’Alle, da poco nelle librerie transalpine (qui pubblichiamo stralci degli interventi di alcuni dei personaggi citati). Insomma, vi è chi si oppone a quei «professori che hanno preso l’abitudine di insegnare un latino light e a quegli esaminatori che ormai danno il voto ai compiti in classe con un semplice cool». Una situazione riscontrabile in varie zone del Vecchio Continente: «È legittimo e ragionevole che la scuola assicuri la salvaguardia del latino invece di allinearsi all’ideologia post-grammaticale del "simpatico", del cool che viene distillato ogni sera ad nauseam dalle serie televisive e dai talk show». In epoca di globalizzazione va riscoperta quella che il filosofo Gottfried Wilhelm Leibniz definiva la lingua durabilis in aeternitatem e che ha permesso «l’espandersi di una cultura intellettuale e di un’identità letteraria senza frontiere». Infatti, «senza questo substrato comune» rappresentato dal latino, sostengono gli agguerriti "prof pro-latino", «i grandi luoghi e nomi della letteratura europea, Petrarca, Dante, Montaigne, Shakespeare, Cervantes, vengono minacciati dall’incomprensione». Come raddrizzare la barra? Dalla Francia arriva un allarme: «Gli studi letterari sono stati per decenni sottomessi a protocolli molto pericolosi perché in mano a epigoni zelanti, imperfettamente informati, delle rivoluzioni delle teorie letterarie. Crisi aggravata dall’inflazione metodologica, dal marketing incontrollabile, dalla moltiplicazione dei compendi». E nella Chiesa il latino gode (ancora) di intoccabile stima? La risposta sembra negativa se si dà ascolto a monsignor Waldemar Turek, addetto alle lettere latine in Segreteria di Stato: «Vi sono ragioni per essere seriamente preoccupati per il futuro di questa lingua, che fino a oggi ha permesso di conservare un tesoro di incomparabile valore umano e dottrinale. Si ha l’impressione che la tendenza generale sia di ridurre l’uso del latino nella Chiesa, dove un numero sempre minore di religiosi e laici riesce a utilizzare il sermo latinus>. Di fatto l’editio typica dei documenti (come le encicliche, ndr) rappresenta sempre più raramente la base di studio per la riflessione teologica».
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