.jpg?width=1024)
Il tredicenne egiziano M., sopravvisuto alle botte dei carcerieri di Mitiga, comandati da Almasri. - Avvenire
«È lui l'uomo che picchiava le persone e che comandava gli altri. Anche io sono stato picchiato dai suoi uomini...». Il dito di M., tredicenne egiziano, è puntato su una foto di giornale, che ritrae il generale Nijeem Osama Almasri, capo della polizia giudiziaria libica, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini di guerra e contro l’umanità, fermato a Torino ma poi liberato e riaccompagnato a casa dal governo italiano con un Falcon 900 «per ragioni di sicurezza». Tre anni fa, M. è stato rinchiuso nella famigerata prigione di Mitiga, dove passano migliaia di migranti diretti in Europa. Un inferno in terra, in cui proprio Almasri - secondo le imputazioni formulate dalla Cpi - dal 2015 in poi avrebbe coordinato, ordinato e eseguito omicidi, violenze sessuali e torture. Nei giorni scorsi, dopo la deflagrazione del caso politico-giudiziario, abbiamo provato a cercare nelle strutture d’accoglienza italiane qualche migrante che sia stato testimone diretto delle nefandezze del “torturatore di Mitiga”. E qualche giorno fa, ci siamo imbattuti nella storia di M. che dal 2022 vive un’esistenza serena a Reggio Calabria, in una casa di accoglienza gestita dalla Comunità Papa Giovanni XXIII e destinata ai minori stranieri non accompagnati, giunti da soli sulle nostre coste.
«Lui era il capo»
Nella casa d'accoglienza, fra le attività proposte ai ragazzi, c’è la lettura dei giornali. Ed è proprio sbirciando una delle prime pagine di questi giorni, che M. ha riconosciuto Almasri. «Lui era il capo», racconta indicando ancora la sua foto, «era lui che decideva i tempi, che decideva chi, come e dove spostarci». Quel volto, e quelli di altri carcerieri, sono rimasti impressi nella memoria del ragazzo: «Ricordo ancora i nomi dei suoi uomini: Ayub, Ossama, Adabae, El Nemir...». Nel lager di Mitiga, M. è stato trattenuto per un lungo lasso di tempo, ancora oggi non sa dire quanto, forse diverse settimane. Ma tutta la sua permanenza in terra libica è stata un esercizio di sopravvivenza: «Ci hanno messo dentro dei magazzini. Un giorno hanno picchiato anche me e un altro ragazzo di 14 anni - ricorda oggi -. Quando ci hanno picchiato, gli altri migranti si sono ribellati: si sono alzati per difenderci perché eravamo troppo piccoli. Allora i trafficanti hanno iniziato a sparare in aria con i mitra finché tutti si sono calmati».
«Le botte prese nel deserto»
La sua odissea verso l’Europa era iniziata ancora prima: «A 10 anni, sono partito dall’Egitto con altri quattro ragazzi un po' più grandi». Suo padre, rimasto a casa con la moglie e un figlio più piccolo, si è indebitato con un vicino per pagare il viaggio ai trafficanti. «Le prime botte le ho prese nel deserto su un pick-up, uno di quei fuoristrada col cassone scoperto - racconta M. -. A bordo c’erano tante persone e uno dei ragazzi rischiava di rimanere soffocato e schiacciato dagli altri. Allora il trafficante ci ha fatti scendere tutti e ha iniziato a picchiarci con dei bastoni. Mi ricordo il nome di quello che ci ha picchiato perché era egiziano come me, si chiamava Abdulnaser Leghash...». Su una spiaggia libica, M. è salito su un barcone con centinaia di altri migranti. Non ha mangiato per due giorni, finché lo scafo - che imbarcava acqua - non è stato intercettato e soccorso dalla Guardia costiera. Da Lampedusa è finito in un centro d’accoglienza di Ragusa, da dove è fuggito per andare verso nord. A Villa San Giovanni, è stato rintracciato mentre vagava per strada e condotto nella casa d'accoglienza. Qui ha ricominciato a vivere: ora frequenta la seconda media, studia e partecipa ad attività con gli animali. Gli piace perché gli ricorda suo padre, che lavora con le bestie in Egitto.
«Torture con le scosse elettriche»
M. non è il solo a essere passato per l’inferno libico. Fra i 200 bambini e ragazzi accolti in dieci anni in quella struttura, tanti hanno condiviso quell’agghiacciante sorte. Le storie di alcuni di loro sono raccolte nel libro Figli venuti dal mare, scritto dal responsabile della Casa dell'Annunziata, Giovanni Fortugno, insieme al giornalista Luca Luccitelli, della Comunità Papa Giovanni XXIII. Fra quei ragazzi c’è Y., eritreo scappato dalla sua nazione per evitaredi combattere al fronte nella guerra contro l'Etiopia. «In Libia ho incontrato un altro eritreo che mi ha fatto arrivare a Sirte, la città di Gheddafi. Qui mi ha venduto ad un altro trafficante che mi ha portato in un magazzino. Fuori città ci sono i magazzini dove i migranti vengono tenuti reclusi prima di imbarcarsi in un gommone, le chiamano “connection house”. Mi hanno messo là e ci sono rimasto cinque mesi. Era un posto sporco, pieno di topi e scarafaggi. Si lavorava come in prigione. Quello che guadagnavamo lo davamo ai trafficanti, dovevamo pagare per la nostra vita». Durante la prigionia, racconta ancora Y., «ci facevano chiamare le nostre famiglie, dovevamo dire che dovevano pagare affinché noi fossimo liberati. A volte succedeva che, quando i trafficanti chiamavano le famiglie, durante la video-chiamata torturavano le persone in modo da costringere i parenti lontani a pagare. Eravamo tantissimi, c'erano anche famiglie con bambini, per cui il mio turno della chiamata non arrivava mai. E così continuavo a rimanere in prigione. Sono rimasto cinque mesi imprigionato nei magazzini dei migranti, alla periferia di Sirte. Infine chiamarono mia sorella che viveva negli Stati Uniti. La chiamarono quattro volte mentre ero nel magazzino. La prima volta non mi hanno toccato. Dalla seconda fino alla quarta volta, mentre io parlavo, loro mi picchiavano sulla schiena e sulla testa, con armi e con tubi di plastica. A volte mi legavano e mi davano le scosse elettriche al collo e ai polsi. Dopo ogni chiamata, «mandavano le foto delle ferite che avevo subito a mia sorella. Dicevano la cifra stabilita e che se non pagavano mi avrebbero ucciso. E' la tecnica dei trafficanti per farsi pagare. Alla fine mia sorella raccolse 10mila dollari. Per trasferire i soldi le chiesero di recarsi in un parco della sua città; le dissero di lasciarli in contanti in un sacchetto, dentro un bidone della spazzatura, non doveva voltarsi e doveva andarsene via. Lei lo fece. Dopo dieci minuti tornò a controllare nel bidone, ma il sacchetto coi soldi non c'era più. I miei aguzzini vennero da me, mi portarono fuori dal magazzino, alla periferia di Sirte, e mi dissero: “sei libero, bye bye”. Avevo una gamba rotta, avevo fame, avevo diverse ferite infettate. Avevo 15 anni».
«Ho visto donne legate e brutalizzate»
Una sequela di orrori è contenuta pure nella storia di un altro ragazzo, partito dalla Guinea e passato in Libia, da solo, a 14 anni. «Quando salutai mio padre sapevo che non lo avrei più rivisto. Mi diede tutti i soldi che aveva, una somma che bastava per il viaggio di una sola persona. Dopo avere attraversato il deserto siamo arrivati a Sebah, poi Tripoli ed infine Sabrata, città che si affaccia sul Mare Mediterraneo», ricorda il giovane, che chiameremo Mamadou. «Ci hanno sistemato in magazzini, senza letti, uno ammassato sull'altro. Ragazzi, donne e bambini. Ricordo l'odore, la puzza. Ricordo quando i trafficanti venivano per scegliere a caso delle ragazze, senza curarsi dell'età. Ho visto anche bambine incinta. Quando ero lì mi hanno parlato del “palo”: alcune donne le appendevano con le mani legate in alto ad un palo ed ognuno dei trafficanti poteva farci quel che voleva». Quando le riportavano indietro, ricorda ancora oggi con sgomento Mamadou, «le lasciavano cadere a terra, come morte».