«Il giudizio della Chiesa è sempre finalizzato alla redenzione. Quello del Papa è stato un appello forte, coraggioso al pentimento». Così dice il vescovo Gianfranco Girotti, che di pentimento e penitenza si può dire sia un esperto, sia per essere stato dal 2002 al 2012 reggente della Penitenzieria apostolica (che si occupa di concedere assoluzioni, dispense, condoni o sanzioni che si riferiscono al foro interno), sia per essere stato per quasi 30 anni cappellano del carcere romano di Regina Coeli.
Monsignor Girotti, si riferisce alla scomunica di cui Papa Francesco ha parlato a Cassano all’Jonio?Sì, che non mi sembra sia da intendere in senso stretto, quello del diritto canonico, piuttosto come un modo per ricordare a coloro che fanno parte della criminalità organizzata che si trovano al di fuori della comunione con Dio, appunto s-comunicati con Dio. Sono loro stessi a mettersi in questa condizione, non sono le parole del Papa.
Il Papa ha parlato di «adoratori del male»…Il Papa dice: quando non si adora il Signore, si finisce per diventa adoratori del male. Così è per coloro che vivono nel malaffare e nella violenza. E questo male va combattuto, va allontanato, vincendo la paura.
Se un parroco si trova di fronte a un fedele di cui è certa l’appartenenza a mafia, ’ndrangheta ecc., cosa deve fare?Deve rendergli manifesta l’impossibilità di accedere ai sacramenti, impossibilità che è conseguenza del suo stato di vita. Con coraggio, deve fare valere la sua autorità pastorale.
Qual è il punto di equilibrio tra giustizia e misericordia?Quando mi pento di questa vita, di questo sistema perverso, di questi reati, di questi atti così fuori dalla logica della Chiesa, allora la misericordia del Signore è li davanti a me.
Lei conosce bene l’universo carcerario: quanta eco hanno in quel mondo parole come quelle pronunciate dal Papa in Calabria e non solo?Hanno certamente una eco, anche profonda. In carcere, dove la sofferenza scava nelle persone, sono parole che possono penetrare in profondità. In quasi 30 anni come cappellano di Regina Coeli ho incontrato persone che hanno cambiato radicalmente la loro vita, alcuni sono anche diventati miei grandi amici. Non bisogna mai considerare il carcere come un mondo perduto. Ho visto cammini di conversione che commuovono.
Come fa un cappellano ad accompagnare pastoralmente un capo mafia o un ’ndranghetista?Chiedere il pentimento con durezza è controproducente. Stabilire con i detenuti un rapporto umano fino a far scoprire loro il vero valore della fede, questa è la strada maestra che porta alla riconciliazione con Dio.
Quanto contano in un cammino di ravvedimento gli affetti, i familiari di un detenuto?Sono imprescindibili. Se manca la famiglia, se non c’è un legame esterno, la persona si sente sola, fuori dalla realtà, fino alla disperazione. La famiglia, i legami esterni son quelli che fanno vivere e che possono avere un’influenza grande in un processo di ravvedimento. Sono le voci che più fanno presa nella coscienza dei detenuti.