Tutti parlano di noi in questi
giorni, siamo sotto i riflettori: televisioni, telegiornali,
stampa. Ma nessuno veramente ci conosce. Noi siamo un gruppo di rifugiati,35 persone provenienti da
diversi Paesi: Pakistan, Mali, Etiopia, Eritrea, Afghanistan,
Mauritania. Non siamo tutti uguali, ognuno ha la sua
storia; ci sono padri di famiglia, giovani ragazzi, laureati,
artigiani, insegnanti ma tutti noi siamo arrivati in Italia per
salvare le nostre vite. Abbiamo conosciuto la guerra, la
prigione, il conflitto in Libia, i talebani in Afghanistan e in
Pakistan. Abbiamo viaggiato, tanto, con ogni mezzo di fortuna, a
volte con le nostre stesse gambe; abbiamo lasciato le nostre
famiglie, i nostri figli, le nostre mogli, i nostri genitori, i
nostri amici, il lavoro, la casa, tutto. Noi siamo venuti per
non fare male a nessuno.
In questi giorni abbiamo sentito molte cose su di noi: che
rubiamo, che stupriamo le donne, che siamo incivili, che
alimentiamo il degrado del quartiere dove viviamo. Queste parole
ci fanno male, non siamo venuti in Italia per creare problemi,
né tantomeno per scontrarci con gli italiani. A questi
ultimi siamo veramente grati, tutti noi ricordiamo e mai ci
scorderemo quando siamo stati soccorsi in mare dalle autorità
italiane, quando abbiamo rischiato la nostra stessa vita in
cerca di un posto sicuro e libero. Siamo qui per costruire una
nuova vita, insieme agli italiani, immaginare con loro quali
sono le possibilità per affrontare i problemi della città uniti
insieme e non divisi.
È da tre giorni che viviamo nel panico, bersagliati e sotto
attacco: abbiamo ricevuto insulti, minacce, bombe carta. Siamo
tornati da scuola e ci siamo sentiti dire negri di merda; non
capiamo onestamente cosa abbiamo fatto per meritarci tutto ciò.
Anche noi viviamo i problemi del quartiere, esattamente come gli
italiani; ma ora non possiamo dormire, non viviamo più in pace,
abbiamo paura per la nostra vita. Non possiamo tornare nei
nostri Paesi, dove rischiamo la vita, e così non siamo messi in
grado nemmeno di pensare al nostro futuro.
Vogliamo dire no alla strada senza uscita a cui porta il
razzismo, vogliamo parlare con la gente, confrontarci. Sappiamo
bene, perché lo abbiamo vissuto sulla nostra stessa pelle nei
nostri Paesi, che la violenza genera solo altra violenza.
Vogliamo anche sapere chi è che ha la responsabilità di
difenderci? Il Comune di Roma, le autorità italiane, cosa
stanno facendo? Speriamo che la polizia arresti e identifichi
chi ci tira le bombe. Se qualcuno di noi dovesse morire, chi
sarebbe il responsabile?
Non vogliamo continuare con la divisione tra italiani e
stranieri. Pensiamo che gli atti violenti di questi giorni siano
un attacco non a noi, ma alla comunità intera. Se il centro dove
viviamo dovesse chiudere, non sarebbe un danno solo per noi, ma
per l'intero senso di civiltà dell'Italia, per i diritti di
tutti di poter vivere in sicurezza ed in libertà. Il quartiere è
di tutti e vogliamo vivere realmente in pace con gli abitanti.
Per questo motivo non vorremmo andarcene e restare tutti uniti
perché da quando viviamo qui ci sentiamo come una grande
famiglia che nessuno di noi vuole più perdere, dopo aver perso
già tutto quello che avevamo.