«La tutela della salute, indipendentemente dal reato commesso, è un diritto del condannato e un dovere dello Stato... ». Parte da qui la disamina del giudice Riccardo De Vito sulle questioni sollevate dal caso Cospito. Per anni magistrato di sorveglianza a Sassari, e già presidente di Magistratura democratica, dal 2021 è stato assegnato come giudice civile a Nuoro. Impegnato nel dibattito giuridico sull’ergastolo e sulla rispondenza del sistema carcerario alla funzione riabilitativa della pena, sancita dall’articolo 27 della Carta, come giudice di sorveglianza ha sempre argomentato con cura le proprie decisioni. Come quando, tre anni fa, chiese al Dap di individuare una struttura dove il boss di camorra Pasquale Zagaria (malato di tumore e detenuto nel carcere di Bancali, lo stesso di Cospito) potesse essere assistito con minor rischio di contrarre il Covid. La risposta non arrivò in tempo. Zagaria andò ai domiciliari, poi fu disposto per decreto il suo rientro e quello di altri boss. La vicenda fece scalpore, ma quell’ordinanza di De Vito era giuridicamente ineccepibile. «La cura della vita e della salute del detenuto deve alimentare costantemente il dovere di custodia osserva adesso -. Altrimenti, siamo fuori da quella grammatica dell’umanità che è il principio base della Costituzione».
Il trasferimento del detenuto Cospito nel carcere milanese di Opera risponde a quel dovere? E non sarebbe stato il caso di disporlo prima?
Non mi esprimo sul caso di specie, drammatico e scaturente da uno sciopero della fame. Ma mi tornano alla mente casi analoghi, di cui forse l’opinione pubblica oggi ha perso memoria.
Quali, giudice?
Penso allo sciopero della fame, anch’esso lungo, attuato nel 1981 da alcuni accusati di terrorismo a San Vittore. Ne venne fuori un rincorrersi di provvedimenti del giudice istruttore, che concedeva la libertà provvisoria (in base al vecchio codice) e della sezione istruttoria, che la revocava. Ricordo che il magistrato Elvio Fassone, su Questione Giustizia, mise a fuoco il dilemma: se si concede la libertà provvisoria, il giudice si espone al ricatto di chi ha scioperato; se la si nega, si mette a rischio la vita dell’imputato; se si neutralizza il digiuno con l’alimentazione forzata, si coarta una libertà fondamentale...
E come se ne esce, allora?
Al di là delle soluzioni giudiziarie, che competono a chi di dovere, credo che la tutela della salute dei condannati imponga un approccio caso per caso.
E la linea della fermezza dello Stato, invocata all’epoca e ribadita oggi per gli anarchici?
Non è un criterio che si possa invocare a livello astratto. C’è chi sostiene che, senza fermezza nel caso Cospito, si rischi l’estensione a macchia d’olio di comportamenti tesi a ricattare lo Stato col digiuno. Ma in pratica, quanti potranno essere gli scioperi della fame protratti oltre cento giorni, tali da portare a rischio di morte lo scioperante? Tenga conto che, per definizione medico-legale, lo sciopero della fame si constata dopo il terzo giorno di rifiuto dell’alimentazione.
E quindi?
Sarebbe opportuno, quali che siano le legittime decisioni, che le istituzioni si calassero sul caso concreto, passando da un’etica dei principi formalistici a un’etica della responsabilità. Mi pare che, nei fatti, il trasferimento di Cospito a Opera vada intanto in questa ultima direzione. Certo, si porranno poi ulteriori problemi correlati all’eventuale tipo di assistenza clinica da fornire.
Se Cospito continuasse a non nutrirsi, i medici potrebbero alimentarlo forzosamente?
Quello sull’alimentazione forzata dei detenuti è un dibattito vivo. E si muove all’interno di paletti rigorosi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della deontologia medica, che la consentono, ma non fintanto che il detenuto è “cosciente” e contrario. Mi pare positivo che intanto lo Stato, col trasferimento in un centro clinico, si faccia carico di un dovere attivo di assistenza medica continuativa.
La protesta è anche contro il regime di 41 bis. Cosa ne pensa?
In generale, incide sulla salute, de-socializzando l’individuo. Se la rianimazione è “l’ospedale dell’ospedale”, il 41 bis è il “carcere del carcere”. Se lo si vuole conservare nei casi in cui è necessario, lo si potrebbe aggiornare, calibrandolo sulle reali esigenze preventive poste da ciascun detenuto. Il caso Cospito, in questo, è paradossale: se il 41 bis serve a evitare comunicazioni con reti criminali esterne, in questo caso non funziona, perché - per ogni giorno in più di digiuno - parte indirettamente un messaggio all’esterno. Quasi un controsenso, rispetto a ciò che lo strumento del 41 bis dovrebbe prevenire.