giovedì 23 maggio 2024
La rivoluzione di Gasperini, che ha portato al successo in Europa League, ha coinciso con una trasformazione della città: più moderna e aperta al mondo
Tifosi atalantini riuniti in centro davanti al maxischermo

Tifosi atalantini riuniti in centro davanti al maxischermo - Fotogramma

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«Un successo storico per la città di Bergamo, un orgoglio per l’Italia intera». Alla fine anche la premier Giorgia Meloni si è messa a tifare Atalanta. Quasi inevitabile lasciarsi folgorare dalla grande bellezza dei tre gol di Lookman e dell’argenteo trofeo dell’Europa League, per la prima volta alzato al cielo da una squadra italiana. Guai però saltare in corsa sul carro dei vincitori: i bergamaschi, gelosissimi della loro Dea (a esser pignoli era solo una eroina greca, ma non è il momento di dispute mitologiche), potrebbero non gradire. Loro il carro preferiscono vederlo passare: migliaia di tifosi hanno accolto gli eroi di Dublino a Orio, il pullman ha faticato a lasciare l’aeroporto.

Un’impresa storica, certamente. Mai l’Atalanta aveva raggiunto queste vette. E chi se ne importa delle tre finali di Coppa Italia perse. L’ultima, contro la Juve, risale ad appena una settimana fa, ma sembra passato un secolo. C’era il rischio di restare magnifici incompiuti, e invece Gian Piero Gasperini, a 66 anni, ha portato a casa il primo grande successo per sé e per l’Atalanta. Un trionfo che fa tutta la differenza del mondo, perché certifica definitivamente il salto di qualità compiuto da un club che fino a 8 anni fa era confinato nella dimensione di provinciale del pallone. Pochi i lampi in 117 anni di storia: la semifinale di Coppa delle Coppe persa contro il Malines nel 1988, soprattutto la Coppa Italia vinta il 2 giugno 1963, gioia peraltro offuscata dalla morte dell’amato papa Giovanni XXIII, avvenuta l’indomani. Nel mezzo tante amarezze: molte altalene tra A e B, persino un anno di purgatorio in serie C, la penalizzazione all’alba della seconda era Percassi (la prima era tramontata male, con il patron costretto nel 1994 a lasciare il club a furor di popolo, lo stesso che oggi lo acclama).

Tutto cambia il 2 ottobre 2016, data che spacca in due la storia calcistica orobica: prima di Gasp, dopo Gasp. Quella domenica l’Atalanta gioca contro il Napoli: reduce da 4 ko in 5 partite, il tecnico dei futuri miracoli rischia l’esonero. Sapendosi in bilico, Gasperini si gioca il tutto per tutto. Fuori la vecchia guardia, dentro i giovani. L’azzardo (calcolato) paga: 1-0, Napoli sconfitto. La saga inizia in quel preciso momento. L’Atalanta sboccia sfruttando i talenti del suo prolifico vivaio come mai aveva fatto, e inizia una scalata che la porterà ai vertici del calcio italiano ed europeo. Grazie alla oculata gestione dei Percassi, certamente, che due anni fa hanno pure trovato soci americani tanto facoltosi quanto discreti. Ma il merito è soprattutto della rivoluzione - culturale, ancor prima che tattica - imposta da Gasperini. Per comprenderne la portata, occorre ricordare cosa era l’Atalanta fino a 8 anni fa. Un club serio, solido, che si poneva obiettivi concreti: salvarsi il prima possibile.

Emblematico il motto imposto dalla tifoseria, fedelmente riportato sul colletto della divisa: “La maglia sudata sempre”. Ma lacrime, sangue e fatica non sarebbero bastati senza un’idea. Per spiccare il volo ci voleva tutta la potenza visionaria del Gasp: personaggio non semplice, eppure geniale. La sua è stata davvero una rivoluzione copernicana: giocare attaccando, non difendendosi. L’Atalanta corre sempre in avanti, anche quando è in vantaggio. Pensa in grande e gioca di conseguenza. La tifoseria, dopo anni di sofferenze, ha scoperto non solo il piacere del bel calcio, ma anche il coraggio di andare a sfoggiarlo ovunque, quasi senza pudore. Lo 0-3 a Liverpool è stato l’apice di questo percorso. Per un popolo umile e fin troppo pragmatico, educato a nascondere il proprio lato creativo, è stata una metamorfosi. Talmente radicale che a Dublino è spuntato uno striscione: “Oltre il risultato”. Fino a ieri poteva sembrare un’alibi da perdenti, invece è una filosofia che ormai è stata sposata anche dai più ruvidi ultras.

Forse non è un caso che a Bergamo siano diminuiti i tafferugli da stadio: piace pensare che quel senso di frustrazione, accumulato e sfogato durante annate mediocri, sia evaporato grazie anche agli schemi del Gasp: ora prevale un orgoglio diffuso che non è più solo un’esclusiva da curva. In questo senso l’Atalanta è più che mai il gioiello di una Bergamo che sta scoprendo di possedere un fascino nuovo: meno legata a edilizia e industria, più votata a servizi e turismo, stimolata da una università in continua crescita. Con tanta voglia di tornare a splendere dopo il lugubre incubo del Covid. «La città vive un momento di grazia proprio grazie a questa squadra - commenta il sindaco Giorgio Gori - Quattro anni fa, Bergamo si è trovata al centro di una situazione drammatica che l’ha resa tristemente nota in tutto il mondo perché questo era l’epicentro della pandemia, il luogo in cui il virus ha colpito con maggior violenza. Oggi torniamo ad essere conosciuti nei telegiornali del mondo per un episodio gioioso e positivo che rilancia la nostra città. In mezzo c’è stata una straordinaria ripresa dovuta alla forza dei cittadini e delle imprese. In tutto questo, l’Atalanta è un po’ la bandiera».

L’anno vissuto da Capitale della cultura, insieme alla bandiera Unesco conquistata dalle splendide Mura veneziane, hanno accelerato l’evoluzione. C’era una volta la terra dei “magùtt”: oggi in cantiere ci vanno sempre più marocchini e romeni, i bergamaschi prediligono altri lavori e appena possono si godono la vita. Escono, affollano i dehors spuntati come funghi dopo il lockdown, apprezzano le grandi mostre d’arte che sempre più spesso approdano in città. E amano viaggiare, non solo per andare a vedersi una finale. Gente di Dublino, che sarebbe piaciuta a Joyce. E che sembra avere ancora molto da raccontare.

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