martedì 14 maggio 2024
Parla la presidente della ong fondata 30 anni fa da Gino Strada: «Oggi il mondo peggio che nel '94, oltre alle vittime dei conflitti salviamo migranti e educhiamo giovani alla pace». Il 19 la festa
La presidente di Emergency Rossella Miccio

La presidente di Emergency Rossella Miccio - Orianna Girardi

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Emergency compie trent'anni. Oggi l’ong lavora in Iraq, Afghanistan, Sudan, Eritrea, Uganda, Sierra Leone. Nel Mediterraneo salva profughi con la Life Support. E in Italia, con ambulatori e sportelli sociosanitari da Nord a Sud del Paese, aiuta poveri e migranti. Diceva il fondatore Gino Strada «Se uno qualsiasi di noi esseri umani, sta in questo momento soffrendo come un cane, è malato o ha fame, è una cosa che riguarda tutti. Perché ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e tra i più vigliacchi». Per festeggiare il suo impegno umanitario, l'ong domenica 19 maggio nella sede dell’associazione, in via Santa Croce 19, a Milano, organizza una giornata ricca di eventi, rivolti a adulti e bambini.

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È il 15 maggio 1994. Un gruppo di amici si impegna a realizzare l’idea, un po’ folle, di un chirurgo milanese, un medico quarantenne con alle spalle anni di lavoro con la Croce Rossa internazionale in Afghanistan, Perù, Somalia, Bosnia, Etiopia. Vogliono creare una piccola organizzazione per soccorrere i feriti delle guerre contemporanee, quasi solo civili. Ciascuno firma 10 milioni di cambiali, e decidono che si chiamerà “Emergency life support for civilian war victims”. Presto sintetizzato in “Emergency”. Il chirurgo era Gino strada, scomparso tre anni fa. La prima presidente sua moglie Teresa Sarti, insegnante di lettere, che non c’è più dal 2009. L’ong dal 2017 è guidata da Rossella Miccio, nata a Nola 50 anni fa, e in Emergency da quando ne aveva 26.

Trent’anni fa nasceva Emergency. L’ong oggi è cresciuta, sia per operatività che per autorevolezza. Cos’è cambiato del vostro lavoro?

Io sono arrivata nel 2000 e sicuramente da allora è cambiata molto, anche al di là delle aspettative di Gino, di Teresa e dei fondatori. Abbiamo curato – gratis e posso dire bene – più di 13 milioni di persone in giro per il mondo. Credo sia un risultato importantissimo, in contesti spesso dimenticati, lontani dai riflettori. Come l’Afghanista, l’Irak, il Sudan che sta attraversando la più grave crisi umanitaria, a detta delle nazioni Unite. Salvando vite, anche nel Mediterraneo, ma ponendoci anche come baluardo di valori in cui tante persone si sono riconosciute.

E il mondo, visto dai fronti caldi in cui operate, in questi trent’anni com’è cambiato? Oggi è meglio o peggio di allora?

È sotto gli occhi di tutti che sia peggiorato. E molto. Siamo nati nell’anno del genocidio in Ruanda, quando il mondo scioccato si rese conto che doveva reagire. Fu la nostra prima missione. Ma poi siamo riusciti a lavorare in Cambogia, Irak, Afghanistan. A fare campagne per l’abolizione delle mine antipersona, di cui l’Italia era uno dei maggiori produttori: curandone le vittime, sensibilizzammo l’opinione pubblica. Oggi invece ci troviamo in un mondo in cui le guerre proliferano, anche vicino al nostro "giardino" che consideravamo immune. E tuttavia c’è sempre più indifferenza e chiusura, invece che apertura, condivisione e voglia di superare insieme queste crisi. Questo ci pone di fronte a tantissime difficoltà operative: è sempre più difficile riuscire a lavorare nei contesti in guerra, trovare le risorse per poterlo fare. Però non molliamo. Proprio perché ce n’è ancora più bisogno.

E oggi quali sono i fronti più caldi su cui operate?

Il Sudan innanzitutto. Lì la situazione non accenna a migliorare, a più di un anno dall’inizio del conflitto. Karthoum è una città sempre più sotto assedio, dove da quasi due mesi manca l’elettricità e quindi anche l’acqua. L’approvvigionamento dei beni di primissima necessità è sempre più difficile. Come anche garantire i servizi essenziali. Stiamo lavorando con estrema fatica, praticamente gli unici operatori internazionali presenti in città. Abbiamo aperto anche un ambulatorio pediatrico all’interno del nostro centro Salam di cardiochirurgia, per dare un servizio minimo a chi è rimasto e non ha più strutture sanitarie di base. I combattimenti sono sempre più vicini alla capitale, anche entrare e uscire è sempre più difficile, tra permessi e strade insicure. Le autorità ci lasciano lavorare, nessuno ci impedisce di curare le persone, ma è una fatica quotidiana dover ricordare a tutti il rispetto delle strutture sanitarie anche nel mezzo di un conflitto. In Darfur siamo riusciti a riattivare solo i servizi minimi del nostro ospedale di Nyala, come vaccinazioni e distribuzione di farmaci salvavita per pazienti cardiopatici. Perché da ottobre l’ospedale è stato saccheggiato dalle forze di Supporto rapido, quando hanno riconquistato la città. Da allora non siamo ancora riusciti a far tornare lo staff internazionale, i farmaci e gli equipaggiamenti per riattivare la clinica. Speriamo di farla ripartire entro un paio di mesi. Questa è la guerra: ornai non ci sono più regole, né rispetto neanche per chi fornisce cure gratuite alla popolazione. È una sfida continua e non si vede all’orizzonte una possibiltà di pace.

E gli altri scenari di crisi in cui operate?

Un altro fronte caldissimo è il Mediterraneo. Un cimitero liquido che troppe persone ancora sono costrette ad attraversare, rischiando la vita. Ed è questo il motivo che ci ha spinto a metterci la faccia con una nostra nave, la Life Support, poco più di un anno fa, per ribadire l’importanza del salvataggio di tutte le vite umane. Poi c’è l’Afghanistan dimenticato da tutti, in cui però 35 milioni di persone devono continuare a vivere.

Il fondatore di Emergency Gino Strada

Il fondatore di Emergency Gino Strada - Carlo Traina

Quando tre anni fa Stati Uniti e Nato lo abbandonarono, l’Italia e l’Occidente giurarono: “Non vi dimenticheremo, non vi abbandoneremo”.

Dissero una bugia. Lo tocchiamo con mano tutti i giorni, perché è sempre più difficile anche solo riuscire a trovare le risorse per lavorare lì. In Afghanistan noi abbiamo ancora 4 ospedali, 40 centri sanitari in 11 province. Siamo un pezzo importantissimo di un sistema sanitario oggi collassato, perché basato solo sugli aiuti internazionali. In due decenni di guerra la coalizione occidentale non ha costruito nulla di sostenibile a lungo termine. E gli afghani continuano a pagarne le conseguenze.

Se negli anni ‘90 c’era un clima abbastanza favorevole all’aiuto umanitario, oggi sembra di assistere a un arretramento politico e culturale.

Sì, ad esempio il soccorso delle ong in mare è criminalizzato. È di pochi giorni fa la nuova delibera dell’Enac che addirittura vieta agli aerei della società civile di decollare da Lampedusa e dalla Sicilia per sorvolare il Mediterraneo in cerca di imbarcazioni in difficoltà. Come se si vietasse a una persona che assiste a un incidente di poter chiamare il 118. Si è ribaltato il paradigma del diritto alla vita e della possibilità per i cittadini di contribuire a migliorare la società. Le ong sono considerate come nemici, quando altro non sono che pezzi di società civile che vuole aiutare. Come le tante ambulanze del privato sociale, ad esempio le Misericordie: ostacolare le ong in mare è come vietare il soccorso di chi è rimasto ferito in un incidente stradale. O costringere l’ambulanza a portare il ferito non nell’ospedale più vicino, ma in uno a 300 chilometri. Pena, il sequestro del mezzo. È esattamente quello che capita quasi in ogni nostra missione. L’anno scorso la nostra nave Life Support ha speso la metà del tempo in mare per raggiungere porti lontani. Spendendo un milione di euro in più, che poteva essere investito per salvare più vite. Nel frattempo tanti altri hanno perso la vita nel Mediterraneo. E chi è stato salvato ha dovuto sopportare giorni e giorni di navigazione, anche col mare grosso. Una mancanza totale di rispetto per la dignità e i diritti di queste persone.

Emergency nasce per curare le vittime di guerra. Ma da anni si adopera anche per un cambiamento culturale. Perché?

Emergency nasce fin dall’inizio con un doppio mandato. Già nello statuto del 1994 c’è la cura delle vittime dei conflitti, quelle dirette e quelle che, a causa delle guerre, non possono accedere al diritto fondamentale alla cura. Facciamo chirurgia di guerra, ma anche cardiologica o pediatrica. Ma, allo stesso tempo, crediamo che la risposta sanitaria e umanitaria sia urgente e necessaria, però sia “un cerotto”. Serve un cambiamento culturale, per curare la malattia della guerra alla radice. Ogni anno incontriamo più di 70 mila studenti nelle scuole di ogni ordine e grado. E da tre anni anche tanti cittadini, nel nostro festival a Reggio Emilia, in cui per giorni condividiamo momenti di riflessione con testimoni e protagonisti.

Cercate di allargare la vostra azione per promuovere un cambiamento sociale? E non essere solo barellieri della storia?

La guerra va abolita. Punto. Perché ha sempre meno senso, in un mondo che rischia l’estinzione a causa delle armi nucleari e delle devastazioni. È una scelta che deve fare la politica, e prima ancora i cittadini. Mi ha molto colpito che due settimane fa il Congresso statunitense abbia votato stanziamenti per 9 miliardi di dollari per aiuti umanitari in tutte le crisi mondiali. Bene, ho pensato, tanta roba. Il giorno dopo però ha votato per destinare altri 92 miliardi di dollari in aiuti militari in soli tre paesi. Se questa è la proporzione, è una scelta che comporta conseguenze importanti. Che pagheremo tutti, sopratutto i più deboli e più vulnerabili. Perché, non dimentichiamocelo, l’unica cosa certa della guerra sono le sue vittime. Nove volte su dieci civili.


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