Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, in uno dei cortei degli anni scorsi, mentre alza al cielo l'agenda rossa - ANSA/MICHELE NACCARI
Le parole dei magistrati circoscrivono una densa nebulosa, intorno alla stagione delle stragi del ‘92. Cosa accadde davvero, negli attimi concitati dell’eccidio di Paolo Borsellino e della sua scorta, in via D’Amelio? Chi, oltre alla mafia, era interessato a togliere di mezzo quel servitore dello Stato? I giudici del tribunale di Caltanissetta hanno depositato le motivazioni della sentenza, emessa a luglio scorso, sul depistaggio delle indagini relative alla strage del 19 luglio del ‘92, appena qualche tempo dopo l’attentato di Capaci del 23 maggio precedente. Furono dichiarate prescritte le accuse contestate a Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti finiti sotto processo e venne assolto, nel merito, il terzo, Michele Ribaudo.
Le pagine della sentenza, nella rilettura di un contesto, lasciano intatto uno scenario di ombre. «La ricostruzione del passato è stata spesso manipolata al fine di fornire una interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di interessi non alti, ma altri rispetto alla ricostruzione autentica di tanti eventi cruciali e cupi degli ultimi decenni di storia del nostro Paese. La strage di via D’Amelio, tragica nel suo esito umano e deflagrante sul piano politico istituzionale dell’epoca in cui si consumò, ne è esempio paradigmatico e pone un tema fondamentale, quello della verità nascosta, o meglio non completamente disvelata». Ecco uno degli snodi delle motivazioni.
Si entra nel dettaglio: «L’istruttoria dibattimentale ha consentito di apprezzare una serie di elementi utili a dare concretezza alla tesi della partecipazione (morale e materiale) alla strage di Via D’Amelio di altri soggetti (diversi da Cosa nostra) e/o di gruppi di potere interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino». A rivelare quell’ingerenza sarebbero «l’anomala tempistica della strage di Via D’Amelio (avvenuta a soli 57 giorni da quella di Capaci) la presenza riferita dal collaboratore Gaspare Spatuzza di una persona estranea alla mafia al momento della consegna della Fiat 126 imbottita di tritolo e la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino».
«Non è aleatorio sostenere - si legge - che la tempistica della strage di via D’Amelio rappresenta un elemento di anomalia rispetto al tradizionale contegno di cosa nostra volto, di regola, a diluire nel tempo le sue azioni delittuose nel caso di bersagli istituzionali (soprattutto nel caso di magistrati) e ciò nella logica di frenare l’attività di reazione delle istituzioni». A meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di esponenti delle forze dell’ordine, «può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile ad una attività materiale di Cosa nostra». Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze.
«In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda- scrive il tribunale -. Gli elementi in campo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda, ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e, per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario o opportuno sottrarre». «In secondo luogo- concludono i giudici - un intervento così invasivo, tempestivo (e purtroppo efficace) nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire - non oggi, ma già nel 1992 - il movente dell’eccidio di via D’Amelio, certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni, evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage (che si aggiungono, come già detto a quella mafiosa) e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage».