Niente chiusure pregiudiziali ma niente ingenuità. Ben vengano le scuse preannunciate da alcuni esponenti della comunità islamica milanese dopo la preghiera promossa sabato scorso davanti al Duomo e le polemiche che ne erano seguite, ma quanto è accaduto deve indurre a una seria riflessione su più fronti. Ne è convinto Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, docente alla Saint Joseph University di Beirut e uno tra i massimi conoscitori del mondo islamico.
Cosa la lascia perplesso nella vicenda milanese? Non si mescolano politica e preghiera. Al di là delle intenzioni personali, che non giudico, è difficile catalogare quanto accaduto come un gesto sostanzialmente di preghiera. Mi è sembrata piuttosto una manifestazione a sfondo politico. Lo dimostra anche il fatto che siano state bruciate bandiere israeliane. Se si vuole pace, deve essere per entrambe le parti in campo. È comprensibile la solidarietà con i palestinesi, ma la preghiera deve essere per tutte le vittime e per chiedere la pace. La protesta politica è altra cosa.
Insomma, sono prevalsi i motivi di ostilità… La preghiera è qualcosa che appartiene alla dimensione esistenziale della persona, è un bisogno e insieme un diritto inalienabile. Ciò detto, non si prega "contro" ma "per" qualcosa o qualcuno. Si può pregare per la pace, per i morti, per il conforto di chi ha perso i propri cari, ma non come gesto di contrapposizione nei confronti di una persona o di un popolo.
C’è chi ha visto nella scelta di piazza del Duomo un gesto che aveva il sapore della sfida, o addirittura della provocazione. Beh, se un gruppo di cristiani promuovesse una preghiera cattolica davanti a un luogo-simbolo dell’islam, la cosa sarebbe vissuta dai musulmani come una provocazione. La scelta del luogo non è stata indifferente, ma la ritengo un gesto più politico che dal sapore specificamente 'anticattolico'. Hanno scelto la piazza più prestigiosa, per avere la massima visibilità anche a livello mediatico. È stata un’ostentazione di presenza e di forza, in cui la dimensione spirituale e privata si mescola e si sovrappone a quella politico-ideologica. E comunque anche la preghiera, quando viene fatta in un luogo pubblico, deve fare i conti con le regole che fondano la convivenza civile.
A cosa allude? Mi riferisco al fatto che la manifestazione in piazza Duomo non era autorizzata, il corteo avrebbe dovuto fermarsi prima e così non è accaduto. Se ci si muove fuori dalla legalità per compiere un atto che si ritiene buono, si commette un errore. La libertà di culto non è in discussione in un Paese come l’Italia, ma tutte le realtà religiose devono tenere conto delle regole che la fondano. I musulmani devono capire che il principio di legalità vale per tutti, e noi cattolici dobbiamo aiutarli a capire, a condividere e a praticare questo principio.
Dunque, il diritto di pregare è qualcosa che deve essere in qualche modo "contestualizzato"? Voi occidentali dovete cercare di capire (che non equivale a 'condividere') la mentalità di chi proviene da altri mondi, anziché trasferire la vostra ottica su di loro. Questo significa esercitare autentico discernimento: requisito, questo, che deve accompagnare ogni vera amicizia, senza preconcetti e senza ingenuità. Venendo al caso specifico, non basta dire che è lecito pregare, se non si capisce cosa muove chi lo fa, all’interno di una concezione che mescola fede e politica. E una dimostrazione come quella snatura la dimensione religiosa perché la 'costringe' dentro una prospettiva politica. Inoltre ci sono aspetti che a voi potrebbero sembrare secondari e invece sono rivelatori. Durante il corteo contro la guerra che ha preceduto la preghiera è stata più volte scandita la frase 'Allah-u akbar': significa 'Dio è il più grande', è un grido di battaglia, uno slogan politico, ma la stessa frase è stata gridata come appello alla preghiera davanti al Duomo, quasi come una sfida. Dunque, c’è stata quantomeno ambiguità.
Da alcuni settori del mondo islamico italiano si sono levate voci critiche nei confronti delle manifestazioni di Milano e di Bologna. Tra gli altri, Yahya Pallavicini, Fouad Allam, Souad Sbai e Gianpiero Vincenzo Ahmad. Che peso hanno queste prese di posizione? Premesso che nell’islam non esiste un’autorità gerarchica unanimemente riconosciuta né qualcuno che possa ergersi a rappresentante di tutta la comunità, bisogna tenere conto delle reazioni di queste persone, che condividono i valori di riferimento della cultura islamica e insieme i principi-cardine dell’Occidente. La loro presa di distanza testimonia una varietà di posizioni nell’islam italiano e dovrebbe far aprire gli occhi a chi, tra gli italiani, ha sottovalutato la portata di quello che è accaduto. È stata scelta la piazza più prestigiosa per avere la massima visibilità, anche a livello mediatico. È stata un’ostentazione di forza Non basta affermare che è lecito pregare, se non si capisce cosa muove chi lo fa, all’interno di una concezione che mescola fede e politica Musulmani in preghiera.