venerdì 9 gennaio 2009
Il gesuita Samir Khalil Samir invita a guardare senza pregiudizi ma con realismo gli episodi di Milano e di Bologna E censura le strumentalizzazioni politiche della religione
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Niente chiusure pregiudiziali ma niente inge­nuità. Ben vengano le scuse preannunciate da alcuni esponenti della comunità islami­ca milanese dopo la preghiera promossa sabato scor­so davanti al Duomo e le polemiche che ne erano se­guite, ma quanto è accaduto deve indurre a una se­ria riflessione su più fronti. Ne è convinto Samir Kha­lil Samir, gesuita egiziano, docente alla Saint Joseph University di Beirut e uno tra i massimi conoscitori del mondo islamico. Cosa la lascia perplesso nella vicenda milanese? Non si mescolano politica e preghiera. Al di là delle intenzioni per­sonali, che non giudico, è diffici­le catalogare quanto accadu­to come un gesto sostanzialmente di preghiera. Mi è sembrata piut­tosto una mani­festazione a sfondo politico. Lo dimostra anche il fatto che siano state bruciate bandiere israeliane. Se si vuole pace, deve essere per entrambe le parti in campo. È com­prensibile la solidarietà con i palestinesi, ma la pre­ghiera deve essere per tutte le vittime e per chiedere la pace. La protesta politica è altra cosa. Insomma, sono prevalsi i motivi di ostilità… La preghiera è qualcosa che appartiene alla dimen­sione esistenziale della persona, è un bisogno e in­sieme un diritto inalienabile. Ciò detto, non si pre­ga "contro" ma "per" qualcosa o qualcuno. Si può pregare per la pace, per i morti, per il conforto di chi ha perso i propri cari, ma non come gesto di con­trapposizione nei confronti di una persona o di un popolo. C’è chi ha visto nella scelta di piazza del Duomo un gesto che aveva il sapore della sfida, o addirittura della provocazione. Beh, se un gruppo di cristiani promuovesse una pre­ghiera cattolica davanti a un luogo-simbolo dell’i­slam, la cosa sarebbe vissuta dai musulmani come una provocazione. La scelta del luogo non è stata in­differente, ma la ritengo un gesto più politico che dal sapore specificamente 'anticattolico'. Hanno scelto la piazza più prestigiosa, per avere la massi­ma visibilità anche a livello mediatico. È stata un’o­stentazione di presenza e di forza, in cui la dimen­sione spirituale e privata si mescola e si sovrappo­ne a quella politico-ideologica. E comunque anche la preghiera, quando viene fatta in un luogo pub­blico, deve fare i conti con le regole che fondano la convivenza civile. A cosa allude? Mi riferisco al fatto che la manifestazione in piazza Duomo non era autorizzata, il corteo avrebbe dovu­to fermarsi prima e così non è accaduto. Se ci si muo­ve fuori dalla legalità per compiere un atto che si ri­tiene buono, si commette un errore. La libertà di cul­to non è in discussione in un Paese come l’Italia, ma tutte le realtà religiose devono tenere conto delle re­gole che la fondano. I musulmani devono capire che il principio di legalità vale per tutti, e noi cattolici dob­biamo aiutarli a capire, a condividere e a praticare questo principio. Dunque, il diritto di pregare è qualcosa che deve es­sere in qualche modo "contestualizzato"? Voi occidentali dovete cercare di capire (che non e­quivale a 'condividere') la mentalità di chi proviene da altri mondi, anziché trasferire la vostra ottica su di loro. Questo significa esercitare autentico discer­nimento: requisito, questo, che deve accompagnare ogni vera amicizia, senza preconcetti e senza inge­nuità. Venendo al caso specifico, non basta dire che è lecito pregare, se non si capisce cosa muove chi lo fa, all’interno di una concezione che mescola fede e politica. E una dimostrazione come quella snatura la dimensione religiosa perché la 'costringe' dentro u­na prospettiva politica. Inoltre ci sono aspetti che a voi potrebbero sembrare secondari e invece sono ri­velatori. Durante il corteo contro la guerra che ha preceduto la preghiera è stata più volte scandita la fra­se 'Allah-u akbar': significa 'Dio è il più grande', è un grido di battaglia, uno slogan politico, ma la stes­sa frase è stata gridata come appello alla preghiera da­vanti al Duomo, quasi come una sfida. Dunque, c’è stata quantome­no ambiguità. Da alcuni setto­ri del mondo i­slamico italiano si sono levate vo­ci critiche nei confronti delle manifestazioni di Milano e di Bologna. Tra gli altri, Yahya Pallavicini, Fouad Allam, Souad Sbai e Gianpiero Vincenzo Ahmad. Che peso hanno que­ste prese di posizione? Premesso che nell’islam non esiste un’autorità ge­rarchica unanimemente riconosciuta né qualcuno che possa ergersi a rappresentante di tutta la comu­nità, bisogna tenere conto delle reazioni di queste persone, che condividono i valori di riferimento del­la cultura islamica e insieme i principi-cardine del­l’Occidente. La loro presa di distanza testimonia u­na varietà di posizioni nell’islam italiano e dovrebbe far aprire gli occhi a chi, tra gli italiani, ha sottovalu­tato la portata di quello che è accaduto. È stata scelta la piazza più prestigiosa per avere la massima visibilità, anche a livello mediatico. È stata un’ostentazione di forza Non basta affermare che è lecito pregare, se non si capisce cosa muove chi lo fa, all’interno di una concezione che mescola fede e politica Musulmani in preghiera.
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