venerdì 31 luglio 2020
Dal 20 luglio assegni (almeno) a 516 euro. Anmic e Cgil chiedono di far crescere tutte le quote
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Foto d'archivio - Ansa

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Il diritto a percepire l’aumento ha cominciato a maturare dal 23 luglio, il giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza 152 della Corte costituzionale, che ha sancito l’incostituzionalità del requisito anagrafico dei 60 anni per l’adeguamento al “vecchio” milione di lire – 516 euro, ora in realtà 651 per effetto dei successivi aumenti – della pensione di invalidità. Il governo è intenzionato a "pagare" tre giorni in più: nel Decreto Agosto, infatti, è previsto l’avvio dell’aumento dal 20 luglio.

Viene così dato seguito alla decisione della Consulta, secondo cui l’attuale livello dell’assegno – 286,81 euro per le persone inabili al lavoro al 100% – «è innegabilmente, e manifestamente, insufficiente» ad assicurare agli interessati il «minimo vitale». Anche se in realtà, l’aumento non arriverà necessariamente a tutti gli inabili al 100% ma sarà calcolato in base a diversi tetti di reddito e alla situazione familiare.

«Questa invece dovrebbe essere finalmente l’occasione, oltre che per ottemperare doverosamente alla decisione della Corte costituzionale, anche per mettere mano a una riforma più complessiva delle pensioni di inabilità/invalidità che oggi non garantiscono neppure la sopravvivenza non solo degli inabili al 100% ma di tutte le persone con invalidità, anche quelle parziali», sostiene il presidente dell’Anmic Nazaro Pagano. L’associazione, che rappresenta gli invalidi civili, chiede da più di un decennio un aumento degli assegni e nel 2008 aveva raccolto oltre 400mila firme per una legge di iniziativa popolare al riguardo. Proposta che nessuna maggioranza, tra quelle che in 12 anni si sono alternate in Parlamento, ha mai preso in considerazione.

«Sarebbe necessario, infatti, rivedere e rendere omogenei i diversi tetti di reddito previsti per ricevere l’assegno e pensare anche ad aumentare – almeno a un livello tra i 413 e i 480 euro – anche gli assegni dei cittadini con invalidità comprese tra il 74% e il 99%», spiega Pagano. È vero infatti che questi ultimi, a differenza degli inabili al 100%, hanno una capacità lavorativa residua e dunque possono trovare un’occupazione. Ma di fatto la grandissima parte di loro non riesce a trovare un lavoro nonostante il collocamento obbligatorio, a cui attualmente sono iscritte circa 800mila persone.

Della stessa opinione Nina Daita, responsabile nazionale delle politiche per la disabilità della Cgil, secondo cui il governo farebbe bene ad aprire un tavolo di confronto per andare anche oltre quanto stabilito dalla Consulta, perché «le pensioni di invalidità sono inadeguate, non permettono la sopravvivenza degli stessi disabili che le percepiscono». E, d’altro canto, se con il Reddito di cittadinanza si è stabilita la soglia dei 500 euro al mese come livello minimo di sopravvivenza per chi è disoccupato o ha redditi bassissimi, perché un disabile impossibilitato a lavorare o che non trova un’occupazione nonostante il collocamento obbligatorio dovrebbe ricevere un sussidio pari alla metà?

Incrementare gli assegni di invalidità è, però, un’operazione tutt’altro che facile e “indolore” per le casse dello Stato. Appena reso pubblico il dispositivo della sentenza della Consulta, il governo si è premurato di creare una posta di bilancio di 40 milioni di euro sfruttando come “veicolo” il decreto Rilancio che era in discussione alle Camere. Una mossa intelligente e prudenziale, ma certamente insufficiente per assicurare copertura, anche futura, agli aventi diritto all’aumento.

Il nodo è anzitutto quello di stimare la platea realmente interessata. Le persone con invalidità al 100% che ricevono la pensione sono attualmente 530mila. Di questi, per effetto dei tetti di reddito, solo 120mila, secondo le stime dell’Anmic avrebbero effettivamente diritto all’aumento a 516 euro al mese per 13 mensilità. Il che si tradurrebbe in un incremento di spesa annuale intorno ai 360 milioni l’anno (570 milioni se l'aumento verrà effettivamente fissato a 651 euro). Se invece l’intervento si allargasse anche a tutti gli altri soggetti percettori di pensioni di invalidità civile, circa 980mila, il conto potrebbe lievitare fino a 2,9 miliardi secondo le stime del Centro studi Itinerari previdenziali.

«Un costo decisamente insostenibile – commenta il presidente ed ex sottosegretario al Welfare, Alberto Brambilla –. In verità è tutta l’assistenza che ha costi esorbitanti e molte rendite non sono giustificate». Soprattutto, lamenta ancora Brambilla, manca una banca dati dell’assistenza che registri con precisione tutti i diversi trattamenti assistenziali di cui beneficiano una persona o un nucleo familiare.

Certo, gli oneri assistenziali sono notevoli ma, restando al tema delle pensioni di invalidità oggetto della sentenza della Corte costituzionale è importante sottolineare ciò che i giudici ricordano nelle motivazioni: «La maggiore spesa a carico dello Stato, derivante dall’estensione della maggiorazione agli invalidi civili (...) non viola l’articolo 81 della Costituzione, poiché sono in gioco diritti incomprimibili della persona». I vincoli di bilancio, dunque, non possono prevalere. Il legislatore ha ovviamente la libertà di «rimodulare la disciplina delle misure assistenziali vigenti» – e un riassetto complessivo, una omogeneizzazione sarebbe auspicale – purché comunque «sia garantita agli invalidi civili totali l’effettività dei diritti loro riconosciuti dalla Costituzione». Ed è esattamente di questo che si discute parlando di un aumento dell’assegno di invalidità. Di un ragionevole e realistico calcolo almeno della soglia di sopravvivenza. Per tutti.

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