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Ogni volta che un attacco jihadista macchia di sangue una strada o una piazza europea, la “madre di tutte le domande” si ripropone nella sua crudezza. Quanto è concreto il pericolo per il nostro Paese? Il magistrato Stefano Dambruoso, esperto di antiterrorismo, fra i primi a indagare su al Qaeda 25 anni fa a Milano e oggi sostituto procuratore a Bologna, riflette qualche istante. Poi snocciola la propria valutazione: «Il pericolo esiste. Ma, per ciò che possiamo capire, finora è riferibile più a singole persone, i cosiddetti lupi solitari, capaci di episodi estemporanei e poco prevedibili, che non all’azione organizzata di cellule strutturate, come potevano essere quelle qaediste».
Gli attentati in Francia e Belgio sembrano confermarlo.
Sì. In base alle prime risultanze investigative, sia l’attentatore ceceno in Francia e che il tunisino in Belgio agivano in proprio, senza una storia personale di legami materiali con gruppi organizzati. Neppure con Hamas o con la vicenda palestinese. Si professavano vicini al Daesh, ma probabilmente perché affascinati dalla subdola propaganda via web, iniziata negli anni in cui il Califfato era in auge.
Daesh e al Qaeda sono “ombrelli ideologici”, dunque. O stanno tornando a essere reti strutturate, in grado di attivarsi?
Al momento funzionano come ombrelli ideologici, per mutuare la sua definizione, perché la loro propaganda virtuale, fatta di proclami e filmati violenti, continua a circolare online facendo proseliti.
Il conflitto fra Israele e Hamas può dare linfa alla galassia jihadista, alimentando nuove sigle e azioni?
Storicamente, la questione palestinese è da decenni fra le motivazioni alla base della radicalizzazione e del terrorismo islamista. Certo, la recrudescenza violenta del conflitto può fare da potente innesco.
L’indottrinamento via web e quello fra detenuti nelle carceri restano nel nostro Paese i principali terreni di radicalizzazione?
Direi di sì. Seppure con modalità diverse, nell’80% dei casi il percorso che porta qualcuno a diventare un estremista avviene via Internet, nelle chat frequentate da fanatici, e nel 20% in carcere.
Ciò che viene fatto da apparati investigativi e intelligence per individuare e interrompere quel tipo di percorsi è sufficiente?
Finora, facendo i debiti scongiuri, si è rivelato sufficiente a mantenere un monitoraggio adeguato e tempestivo di soggetti potenzialmente pericolosi. In questo, l’operato quotidiano della Polizia postale è prezioso. E già il fatto di sapere chi va tenuto d’occhio in una certa situazione di rischio, è un punto di partenza.
Eppure, come può accadere che un soggetto segnalato in Italia come “radicalizzato”, il tunisino Abdelsalem Lassoued, scompaia poi dai radar dell’Antiterrorismo di altri Paesi fino a quando colpisce?
La prima risposta della prefettura bolognese era stata di diniego dell’asilo e di espulsione. Poi nelle more dell’appello, durante il quale non si può essere trattenuti, lui si è dileguato. Tuttavia, al netto di tempi procedurali e lungaggini burocratiche, resta un dato di fondo.
Quale?
Noi viviamo in democrazia, con diritti e libertà garantiti a ogni individuo, e ne siamo giustamente fieri. Ma...
Ma ciò comporta un costo, sembra dire lei...
Dobbiamo sapere che le democrazie, in quanto società aperte, sono inevitabilmente vulnerabili. Quei principi, che sono la nostra forza e i pilastri della nostra civiltà giuridica, qualche volta possono fare da talloni d’Achille, se sfruttati da un estremista.
Ora diversi governi europei hanno sospeso Schengen e disposto controlli serrati alle frontiere. Basterà?
Sul piano politico e comunicativo, può rassicurare l’opinione pubblica. Su quello concreto, ha comunque un senso, perché aumentare i controlli potrebbe contribuire a rendere più complicati i progetti e i percorsi di avvicinamento di estremisti verso i luoghi prescelti per le loro azioni. Ciò detto, come le indagini hanno mostrato in passato, ci sono anche terroristi che si spostano con passaporto e voli aerei.
Torniamo in Italia. Qual è la mappa del radicalismo? Ci sono città dove soggetti o predicatori estremisti sono più attivi?
Per quel che risulta, Milano e la Lombardia, Torino, Napoli e dintorni sono aree in cui comunità radicalizzate hanno mantenuto una presenza. Ma anche Ravenna e la zona di Forlì. E, nel Lazio, più la provincia di Viterbo che Roma.
I lupi solitari colpiscono con ciò che hanno sottomano. Rispetto ad altri Paesi, in Italia per un aspirante jihadista procurarsi armi da fuoco o esplosivi è più difficile?
Qualcuno ricorderà che , nel 2009 a Milano, un attentatore si fece saltare davanti a una caserma con una bomba casereccia fatta con fertilizzanti, causando alcuni feriti. Da allora il monitoraggio degli elementi radicali è tale che, ritengo, una eventuale acquisizione di armamenti difficilmente sfuggirebbe agli apparati di sicurezza.
Dal 2015 l'Italia ha espulso 712 stranieri sospettati di estremismo, 54 quest’anno. Uno strumento che funziona?
Sul piano preventivo sicuramente, perché è un intervento immediato a carico di soggetti che non hanno compiuto ancora azioni che comportano la detenzione, ma il cui percorso di radicalizzazione - come nel caso dell’attentatore di Bruxelles - è netto.
Da parlamentare, lei aveva proposto una legge per prevenire i fenomeni di radicalizzazione, che non passò. Una normativa così servirebbe ancora al Paese?
Senza voler essere autoreferenziale, debbo ammettere di sì. Diversamente dalla maggior parte dei Paesi europei, noi non abbiamo strumenti per misurare l’affermarsi del radicalismo islamista. Servirebbe una normativa per progettare e finanziare interventi in diversi settori - carceri, scuola, mondo dell’informazione - capaci di “leggere” ciò che avviene in quelle realtà e di usare quell’osservatorio per contrastare i semi di odio con messaggi positivi e per canalizzare energie verso una vera integrazione.