Madre e figlio stranieri all'ingresso di una scuola italiana - .
Uno degli argomenti adottati dal fronte sovranista distingue un’immigrazione illegale, da combattere con ogni mezzo, e un’immigrazione legale e integrata che invece sarebbe ben accolta. Il decreto flussi, benché mal congegnato e mal gestito, dovrebbe servire a questo scopo. Ecco però che nel testo blindato con il voto di fiducia compare una norma che ha poco a che fare con i nuovi ingressi per lavoro, mentre penalizza proprio quegli immigrati regolari e occupati che, a livello retorico, dovrebbero essere tutelati. Se ha una logica, la stretta sembra voler ribadire una visione dell’immigrazione limitata alla fornitura di braccia, con il minimo riconoscimento possibile di diritti ed esigenze umane.
È ben noto invece che dopo i lavoratori arrivano le famiglie, ed è questa, non gli sbarchi, la fonte principale dei nuovi ingressi: anche in Italia, con la sola eccezione del 2023, ma senza tener conto degli immigrati con cittadinanza Ue, che non hanno bisogno di permessi per accogliere i familiari. Parafrasando il noto aforisma dello scrittore svizzero Max Frisch, riferito fra l’altro proprio agli emigranti italiani, si può dire che una regola inossidabile delle migrazioni suona così, almeno nei Paesi democratici: «Volevamo delle braccia, sono arrivate delle famiglie».
Vivere in famiglia non solo è un’esigenza umana incoercibile, ma rafforza la coesione sociale, favorendo una vita normale, ordinata e integrata. I comportamenti illegali o comunque riprovevoli, come risse, ubriachezza, schiamazzi, ricorso alla prostituzione, scendono nettamente quando le persone vivono con la propria famiglia. Proprio quando le forze di governo tornano ad agitare lo spettro dell’insicurezza portata dall’immigrazione, pur dichiarandosi disposte ad accogliere i lavoratori, hanno partorito una norma che rallenta e complica i ricongiungimenti familiari. Senza contare il contribuito demografico delle famiglie immigrate all’esangue natalità italiana, ai consumi, al salvataggio di scuole e posti degli insegnanti. Intendiamoci, è ragionevole prevedere che i lavoratori debbano aver raggiunto un minimo di stabilità prima d’invitare i propri familiari a raggiungerli: quindi la norma in vigore prescriveva un anno di attesa, oltre a un certo reddito, crescente in funzione del numero di familiari da ricongiungere, e determinati requisiti d’idoneità alloggiativa. Ora però il governo ha raddoppiato di punto in bianco l’attesa a due anni, con un più rigido controllo delle condizioni abitative da parte della polizia locale.
È una condanna a una prolungata solitudine affettiva per chi è qui, a una dolorosa separazione forzata per i coniugi e i bambini che rimarranno lontani dal genitore emigrato. Infelicità gratuita per tutti. La cittadinanza genitoriale, affermata con crescente vigore per i cittadini nazionali, per i padri separati per esempio, o per le madri tossicodipendenti, non ha la stessa cogenza nel caso degli immigrati. L’impegno politico a favore delle famiglie non vale per quelle transnazionali che vorrebbero ritrovarsi in Italia. Sono figlie di un dio minore. Già oggi l’angustia degli spazi abitativi ostacola i ricongiungimenti, e la norma appena introdotta, ammesso che sia realizzabile, ha l’intento di limitarli maggiormente. Ci si dovrebbe domandare: i bambini poveri non hanno il diritto di stare con i propri genitori, se sono stranieri? È meglio per loro vivere un po’ più stretti o rimanere separati dai confini e dalle distanze? Tra l’altro, non è difficile prevedere che aumenteranno i ricongiungimenti non autorizzati. Anni fa in Spagna in occasione di una sanatoria le autorità si accorsero che, per effetto di norme restrittive, le famiglie immigrate ricongiunte informalmente erano più numerose di quelle in regola. Quando leggi irragionevoli tentano di comprimere bisogni umani primari, è il minimo che possa succedere. È un malinconico regalo di Natale quello che il governo italiano ha deciso di recapitare a casa dei figli degli immigrati in questo dicembre.