C’è un nesso tra le morti di tumore di Taranto e l’Ilva. Ora lo dice anche una sentenza del tribunale di Taranto, seppur di primo grado. Ieri si è conclusa con ventisette condanne ed un’assoluzione il procedimento penale a carico di dirigenti dell’Italsider, come si chiamava il siderurgico ai tempi in cui era statale, dal 1995 Ilva, di proprietà della famiglia Riva. Un procedimento partito per fare chiarezza su decessi e lesioni subite da 28 lavoratori, operai della fabbrica, morti per mesotelioma pleurico, mesotelioma peritoneale e carcinoma polmonare, perché esposti ad amianto ed altri agenti inquinanti all’interno della fabbrica. La sentenza, letta dal giudice Simone Orazio, la attendevano in molti in aula. I familiari delle vittime si sono costituiti parte civile insieme alla Fiom Cgil ed alla Uil di Taranto. Le accuse sono, a vario titolo, di disastro colposo, omicidio colposo e violazione della normativa sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Le condanne vanno dai quattro a nove anni e mezzo. Il tribunale ha comminato sei anni di reclusione all’ex presidente dell’Ilva Fabio Riva e all’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso. Condannato ma escluso dal procedimento, causa morte, il patron dell’Ilva Emilio Riva. La sentenza è giunta dopo due anni di dibattimenti. E a far rumore sono anche i risarcimenti nei confronti dei familiari delle vittime: due milioni ed ottocento mila di euro che sono esigibili da subito e verranno corrisposti dall’Inail. «Ricordiamo che questa è una sentenza di primo grado» ha smorzato i toni il procuratore della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio. «Le condanne di Taranto confermano una drammatica verità. Ora occorre attuare pienamente il piano di risanamento dell’Ilva» ha commentato il presidente della commissione Ambiente alla Camera Ermete Realacci. «La situazione non è facile ma drammatica. Il tempo è scaduto» è stato invece il commento del segretario generale Fiom Maurizio Landini che chiede al governo di discutere nei prossimi giorni di cosa accadrà allo stabilimento e di prendere in considerazione l’ipotesi di forme di esproprio. Intanto il direttore dell’Arpa, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale, Giorgio Assennato, ha smentito le dichiarazioni contenute nella relazione trimestrale diffusa dal commissario straordinario Enrico Bondi, secondo cui anche l’Arpa sostiene che non ci sia una connessione tra morti ed emissioni dello stabilimento. «Il commissario mente sui dati dell’Arpa, non abbiamo mai sostenuto che non ci sia un legame tra inquinamento e morti, come invece sostiene in una sua relazione» ha detto. Fondamentale perché si arrivasse alla condanna di primo grado è stato il lavoro dello Spesal, dipartimento della Asl che ha permesso alla Procura ionica di aprire una nuova inchiesta negli scorsi giorni, per accertare se ci sia un’ulteriore connessione tra le tante morti di tumore degli operai impiegati nel reparto di carpenteria dell’Ilva ed il loro lavoro all’interno del reparto. Ora a Taranto – l’udienza preliminare inizia il 19 giugno – si sta per aprire un altro maxiprocesso per disastro ambientale, omicidi colposi, omissione di cautele contro gli infortuni, concussione e corruzione, che vede coinvolti, oltre ai Riva e ad altri dirigenti, anche rappresentanti politici come il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola e il sindaco di Taranto Ippazio Stefàno, assessori e funzionari regionali. Per definire il sistema di potere dell’Ilva, gli inquirenti hanno chiamato l’inchiesta “Environment Sold Out”, ovvero “ambiente svenduto”.