giovedì 25 agosto 2011

 

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La strada si è fatta improvvisamente larga e silenziosa. Da una parte il lungo muro che costeggia il compound di Bab al-Azizia, a Tripoli, dall’altra un quartiere popolare di case basse. Il nostro pick-up correva veloce su un tappeto di bossoli, pietre divelte e detriti: i resti della battaglia. Nessuno, ma proprio nessuno, intorno: solo sporadici colpi che tagliavano l’aria e la nostra concentrazione. Sentivamo, tutti, che qualcosa stava succedendo. Che il nostro viaggio, così ricco di segnali e presagi fin dall’inizio, ci stava portando diritto al cuore di questa guerra. Ed è stato quel silenzio che l’ha rivelata a me.Avevo negli occhi e nelle orecchie i colori e l’euforia chiassosa di Piazza Verde dove eravamo stati poco prima per assistere ai festeggiamenti della “presa di Tripoli” da parte dei ribelli. Raffiche in aria, caroselli di mezzi militari, gli slogan urlati a tutta voce: «Libia libera, Libia libera». Quando ci siamo rimessi in viaggio, e la strada si è aperta in un vialone spettrale, quel silenzio mi ha subito allertato. Una sensazione forte, chiarissima. Perfettamente riconoscibile da chi fa questo mestiere. È esattamente in quel momento che ho capito: eravamo in pericolo, dovevamo tornare indietro. Questione di attimi: pochi metri di asfalto. Troppo pochi per riuscire a suggerire al nostro autista di fermarsi immediatamente, invertire la marcia...DOMANI SU AVVENIRE IL SEGUITO DEL REPORTAGE
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