All’ospedale di Niguarda ancora non ci credono. Lì, nell’alta intensità di cardiologia e trapianti dove il cuore degli esseri umani con le sue bizzarrie la fa da padrone, medici e infermieri agli imprevisti sono avvezzi. Eppure quando pochi giorni fa hanno salutato la partenza di Giuseppe Boschiroli, il loro sguardo si è illuminato di stupore e incredulità davanti a quell’uomo di 47 anni che, più volte dato per spacciato, se ne tornava tranquillamente a casa. Rinato per l’ennesima volta, con un immenso regalo di Natale. «È un caso più unico che raro – dice Claudio Russo, il cardiochirurgo che l’ha operato per ultimo e, con la sua idea vincente, rigenerato –. Stiamo parlando di una persona il cui cuore funzionava correttamente soltanto grazie al supporto del Vad e che ora può invece tornare a vivere normalmente, senza questa invasiva e complessa macchina». Il Vad (Ventricular assist device) è un sistema di assistenza cardiaca portatile. Serve a traghettare verso il trapianto la persona il cui cuore non riesce più a pompare a sufficienza. La parte del Vad interna al corpo è collegata al cuore ed è alimentata da batterie esterne poste in un borsello. Trait d’union tra dentro e fuori è un cavo che, a rischio d’infezione, comporta continue e pazienti medicazioni. Giuseppe con il Vad ha convissuto tre anni e mezzo, dopo un infarto. Finché tre mesi fa non gli è capitata una cosa altrettanto micidiale. «Stavolta sembrava finita – racconta coccolato dalla moglie Daniela, dai tre figli e dal nipotino Tommaso nella sua casa di Ricengo, provincia di Cremona – eppure percepivo che il mio cuore poteva farcela, anche se ero quasi morto. Ci ho sempre creduto, c’era in me la rassicurante presenza di Dio che mi rendeva sereno. Avevo fede in Lui e umana fiducia nel mio cuore, sentivo che eravamo alleati, che lottavamo insieme. Dovevo soltanto avere la pazienza e la forza di aspettare che si riprendesse ancora una volta». Giuseppe il viaggio di andata e ritorno per l’aldilà lo aveva già fatto quando cominciò la sua personale via crucis il primo maggio 2011. «Dopo l’infarto – racconta la moglie Daniela – i medici mi dissero che Giuseppe si era sì salvato, ma che probabilmente si sarebbe ridotto a vivere come una pianta perché il cuore era rimasto fermo per troppo tempo. Va bene, dissi, datemela lo stesso questa pianta, ci penso io a innaffiarla». «Erano le tre di notte – interviene Giuseppe, che lavorava all’Atm –, mi trovavo con dei colleghi nella metropolitana di Milano a sistemare un binario. A un certo punto sono finito lungo e disteso. Non ho più visto nulla. Mi hanno detto che ero come morto». Subito soccorso, viene trasportato alla vicina clinica Santa Rita. Dalla coronarografia l’infarto risulta provocato da due arterie occluse. La corsa al più attrezzato ospedale San Raffaele è disperata. Lì gli mettono due by pass, ma il cuore non riparte. Giuseppe viene mantenuto in vita grazie alla circolazione extra corporea. Passano le ore, febbrili. Un cardiochirurgo propone di tentare il tutto per tutto: soltanto il Vad potrebbe salvare Giuseppe. Non si era però mai tentato di impiantarlo a una persona non cosciente. Si fa un elettroencefalogramma: l’esito è ok. Si può procedere. Tre giorni dopo l’infarto Giuseppe torna in sala operatoria. Durante l’intervento gli viene iniettata eparina per favorire la coagulazione. Nessuno può sapere che Giuseppe è allergico alla sostanza. La reazione è una forte emorragia, perde cinque litri di sangue e l’operazione sembra ormai avere un esito fatale. «Io non ero rimasta in ospedale quel giorno – racconta la signora Daniela –. Volevo stare a casa con i miei figli e insieme a loro, al parroco e alla gente di Ricengo pregare per Giuseppe. Non posso dimenticare la telefonata che mi arrivò poco dopo l’operazione, quando mi dissero di tutte quelle complicazioni e che mio marito era in rianimazione. Chiesi quanto fosse grave. Signora, mi dissero, più grave di così c’è solo la morte. Non volevano che mi facessi illusioni». La reazione all’eparina, con la perdita di cinque litri di sangue e la insufficiente irrorazione delle estremità protrattasi così a lungo, procura a Giuseppe la necrosi delle dita di mani e piedi. Salvo e tornato cosciente, trascorre interminabili giornate in terapia intensiva. «Ero immobile nel letto – racconta – vedevo la necrosi alle dita delle mani e sapevo di quella alle dita dei piedi. Lì ci pensava mia moglie a spalmarmi della crema emolliente, ma solo per il poco tempo delle visite. In fondo al letto, non potevo certo arrivarci. Ma un giorno, guardandomi le mani, mi sono detto: queste dieci dita ci penso io a salvarle». Così per più di due mesi, mentre il cuore pian piano cercava di riprendersi, Giuseppe nel suo letto si fregava le mani con la complicità di una crema. Stava per farla franca un’altra volta. A luglio esce dalla terapia intensiva e viene spedito in riabilitazione e poi a casa con la mano destra quasi guarita, il borsello del Vad a tracolla e qualche strascico motorio e neurologico a cui con pazienza cercare di rimediare. «Alla dimissione i medici del San Raffaele non credevano ai loro occhi. Mi hanno persino ripreso in un video perché per loro tre mesi prima ero di fatto morto, non pensavano che potessi riprendermi in quel modo. Tornato a casa, dopo pochi giorni già inforcavo la bicicletta e facevo anche 15 km alla volta. L’aria di casa mi stava rigenerando. Avevo il fastidio del Vad, certo, ma ero ancora vivo. Nonostante la difficoltà, non rinunciavo nemmeno a farmi la doccia e la ferita attorno al cavo me la medicavo da solo. Volevo essere autosufficiente e non pesare sugli altri». La ricreazione per Giuseppe, però dura poco. La necrosi alle dita peggiora. Così, dopo un solo mese a casa, di nuovo in sala operatoria. Il verdetto dei medici del San Raffaele è perentorio: amputazione. Giuseppe perde tutte le prime falangi delle dita del piede destro e tre del sinistro. Salvata la mano destra, la sinistra deve sacrificare le punte di due dita. Altra lunga convalescenza e poi di nuovo a casa. Camminare diventa ora più faticoso, ma Giuseppe non demorde. All’inizio del 2012 entra in lista per il trapianto di cuore a Niguarda. Ma intanto, come temuto, arrivano i guai anche con il Vad: il cavo si è infettato. I ricoveri si moltiplicano, tra flebo non stop di antibiotici e continue medicazioni. Così per due anni e mezzo, finché tre mesi fa arriva il colpo del kappaò. «Ero in casa con i miei, quando a un certo punto la spia dell’allarme del Vad comincia a suonare all’impazzata. Chiamiamo Niguarda, saliamo in auto e ci fiondiamo all’ospedale di Crema. Da Niguarda intanto parte l’elisoccorso. Avevo i minuti contati, il Vad era andato in tilt. Arriva l’eliambulanza, salgo che già comincio ad ansimare e la mente mi si annebbia. Ricordo l’atterraggio a Niguarda, il portellone che si apre, l’ambulanza sulla pista con medici e barellieri, la corsa verso l’ospedale, un lungo corridoio e poi il buio. Più nulla, avevo perso conoscenza». Ancora una volta Giuseppe entra nel tunnel, tra la vita e la morte. «Non c’era un minuto da perdere – racconta il dottor Russo –. Inutile ogni tentativo di riavviare il Vad. Il paziente era in grave scompenso cardiaco e circolatorio, stavamo per perderlo. Non restava altro che un intervento chirurgico di emergenza di impianto di (Extra corporeal membrane ossigenation, un supporto meccanico di circolo, ndr). Intanto avevamo attivato la procedura internazionale per un trapianto di cuore urgente». L’intervento riesce anche stavolta. In sala di rianimazione, i monitor e lo sguardo vigile di medici e infermieri non lo abbandonano un solo istante. Lui è privo di conoscenza. «Passavano i giorni – continua il dottor Russo – e dagli esami strumentali vedevamo che il cuore mostrava un graduale recupero della funzionalità nonostante, oltretutto, il malfunzionamento dei by pass che aveva da tre anni. Allora decidiamo di osare: operarlo di nuovo per rifare i by pass e rivascolarizzare il cuore, togliere l’ormai inutile Vad e rimuovere l’Ecmo. Se in quel momento mi avessero detto che Giuseppe sarebbe andato a casa addirittura per Natale con il suo cuore sopravvissuto all’inimmaginabile…». Giuseppe, in fondo, è andato dove lo ha portato il cuore. Ma non solo il suo. «Hanno pregato in tanti per me – dice commosso – e io questa forza superiore la sentivo. Questo mistero invisibile me lo porto dentro, forse è il mio vero cuore».
L’infarto, la paura, la fede. La guarigione quasi inspiegabile, dopo anni di sofferenza. Ora vive libero dalle macchine.
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