giovedì 4 luglio 2024
La decisione è stata presa perché Francesco Schiavone non ha fatto rivelazioni sui segreti riguardanti i rapporti tra il clan dei Casalesi, la politica e il mondo degli affari. Ma il figlio collabora
La foto segnaletica di un giovane Francesco "Sandokan" Schiavone

La foto segnaletica di un giovane Francesco "Sandokan" Schiavone - ANSA

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Nessuna clamorosa rivelazione sui segreti riguardanti i rapporti tra il clan dei Casalesi, la politica e il mondo degli affari. Nessun mistero svelato, niente di niente. La collaborazione con la giustizia di Francesco “Sandokan” Schiavone, capo storico del cartello camorrista di Casal di Principe, finisce qui. E il boss 70enne torna lì dov’è stato per tanti anni, ovvero al carcere duro. Termina così, con un nulla di fatto, la breve

È stata la Procura di Napoli, guidata da Nicola Gratteri, a decidere di mettere la parola “fine” al percorso di collaborazione con la giustizia intrapreso dal camorrista: le dichiarazioni da lui rese finora non si sono rivelate utili ai magistrati. Il via libero definitivo alla fine della collaborazione con la giustizia di “Sandokan” lo ha dato il ministero della Giustizia, che ha disposto per lui il ritorno alla detenzione in regime di 41 bis. Uno dei processi al quale Schiavone, da collaboratore di giustizia, avrebbe potuto fornire un apporto importante è quello in corso a Santa Maria Capua Vetere su alcuni appalti Rfi (Rete ferroviaria italiana), nel quale sono imputati i fratelli Nicola e Vincenzo Schiavone.

I due, ritenuti legati al clan dei Casalesi, in particolare proprio al boss Schiavone, si sarebbero aggiudicati gli appalti per conto della cosca: affari, politica e camorra, dunque. I due Schiavone non sono parenti di “Sandokan”, ma erano a lui molto vicini: Nicola Schiavone ha fatto da padrino di battesimo a un figlio del camorrista, che nell’81 compariva come socio della società di costruzioni Scen. Sebbene le dichiarazioni del boss nell’ambito di questo processo fossero molto attese, da lui non è arrivato alcun contributo utile a far luce sull’attività dei presunti “colletti bianchi” del clan, che sono risultati finora sempre innocenti in altri processi, come il famoso “Spartacus”, nel quale “Sandokan” fu condannato all’ergastolo.

Il boss Schiavone avrebbe anche dovuto chiarire alcune frasi intercettate nei colloqui mensili che ha avuto nei 26 anni di detenzione con i suoi familiari. Per esempio, avrebbe dovuto spiegare chi è «Zio Pipino» e perché chiedesse ai suoi cari «come si sta comportando?». «Sto in galera anche per lui...», «Vedi che è la mia cassaforte...»: parole che, secondo gli inquirenti, raccontano di un “Sandokan” attento a gestire gli affari di famiglia perfino dal 41 bis. Altri due figli del boss, Nicola e Walter, avevano scelto prima di lui la strada della collaborazione con la giustizia, che nel loro caso prosegue. Proprio Nicola, a differenza del padre, ha reso importanti dichiarazioni nel processo sugli appalti Rfi, accusando i due presunti “colletti bianchi” del clan di rientrare tra gli «imprenditori soci, quelli che mettevano nei loro lavori i soldi del clan».

Chi, invece, ha scelto di proseguire sulla strada del crimine organizzato è l’altro figlio di Francesco Schiavone: Emanuele Libero. Quest’ultimo, tornato recentemente a Casal di Principe dopo aver scontato diversi anni di carcere, è stato protagonista di una faida a colpi di raid intimidatori con un gruppo rivale, contro la quale migliaia di persone hanno marciato nelle strade del paese per dire “no” alla camorra. Anche per Emanuele Libero, come per il padre, si sono riaperte le porte del carcere. È stato infatti arrestato due settimane fa a Napoli su mandato della Procura del capoluogo campano.

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